Costellazioni fragili e altre alleanze.
L’assemblea come modus operandi per il futuro mondo dell’arte. 

Yulia Tikhomirova 

Negli ultimi decenni a livello internazionale abbiamo osservato un numero sempre  crescente di nuove forme di produzione culturale che mirano a creare strutture autoriali ibride,  aperte alla partecipazione e orizzontali. La figura modernista dell’artista ‘genio singolo’ ha  perso la sua centralità. Esponenti di varie professioni entrano a far parte dell’autorialità  collettiva, contribuendo a sfumare i confini tra l’individuo e il collettivo; inoltre, il  coinvolgimento del pubblico come parte determinante dell’opera è ormai una pratica diffusa.  All’inizio degli anni 2000, un nuovo fenomeno collaborativo ha messo le radici nell’arte  contemporanea – il cosiddetto assemblism1 o assemblea, uno studio pratico delle potenzialità  delle riunioni. I singoli artisti e i collettivi si uniscono in nuove forme di alleanze, plasmando  costellazioni ibride, temporanee o di lunga durata. 
Il fenomeno è direttamente correlato al contesto politico del primo decennio del  ventunesimo secolo: il declino della democrazia rappresentativa, la trasformazione del  movimento anti-globalista dopo l’11 settembre e la cosiddetta ‘guerra al terrore,’ in breve – la  politica come stato di emergenza permanente. Per reagire all’ascesa al potere delle forze  conservatrici, una serie di pratiche artistiche e curatoriali ha messo in discussione il ruolo  ontologico e sociale dell’arte contemporanea e delle sue istituzioni, analogamente  all’operazione di cento anni fa, quando le avanguardie storiche tentarono di elaborare i modelli  per un’organizzazione radicalmente nuova della vita. All’inizio del Novecento, gli artisti  partivano dalla sfera del sensibile facendosi carico dell’illuminazione delle masse. 
Oggi è in corso un’operazione inversa. Gli artisti e le istituzioni imitano la metodologia  dei movimenti sociali e coinvolgono gli attivisti per espandere la sfera estetica. Riassumendo  in modo provocatorio: nel corso di un secolo, l’artista è passato dal loro ruolo dell’educatore  del popolo alla posizione di uno studente pronto a imparare dall’attivismo politico. Gli esempi  di questa tendenza nell’arte contemporanea sono numerosi: International Institute of Political  Murder (s. 2007), Bergen Assembly (s. 2009), Immigrant Movement International (s. 2010),  Autonomy Project (s. 2010), Arctic Art Forum (s. 2016), New World Summit (s. 2012), Artist  Organizations International (s. 2015), Assemblism (s. 2017), The Art of Assembly (s. 2020) e  altri. “Le arti hanno mostrato un rinnovato interesse per i concetti di aggregazione e creazione di sfere pubbliche in cui la società non è solo rispecchiata, ma costantemente sperimentata,  testata, o addirittura reinventata”. 
Antonio Negri e Michael Hardt hanno sviluppato il concetto dell’assemblea attraverso  un’indagine approfondita delle correnti anti-global. Nonostante il libro Assemblea3 non  proponga un legame diretto con il mondo dell’arte, la loro analisi dei movimenti “senza leader”  e la riflessione su come ottenere un cambiamento duraturo sono state accolte da numerosi  curatori e artisti che ci hanno visto la possibilità di attuare una rivoluzione strutturale del  sistema dell’arte. Hardt e Negri individuano nell’assemblea la capacità di ripensare la  democrazia oltre la rappresentanza e di creare uno spazio del comune superando la proprietà  privata. I filosofi insistono sulla “ontologia plurale che i movimenti esprimono” e sottolineano  come costellazioni sociali radicalmente diverse siano in grado di organizzare autonomamente  la produzione e la distribuzione della ricchezza. Cosa può significare una riflessione simile per  le politiche culturali? Come trasformare l’attuazione di decisioni tattiche a breve termine in una  strategia per soddisfare le richieste pubbliche? Qual è lo spazio del comune nell’ambito del  mondo dell’arte? 
L’arte che riconosce l’urgenza di riconquistare il suo significato e valore sociale, deve  affrontare queste interrogazioni in modo costruttivo e autocritico. Ciò significa abbandonare le  pratiche di critica istituzionale in nome della costituzione di nuovi ambiti e infrastrutture  artistiche a cui possono accedere altri gruppi sociali, esterni all’arte. Inoltre, come afferma il  critico e attivista Gregory Sholette, significa ripristinare “forme sociali e istituzioni collettive  che il neoliberismo ha distrutto, iscrivendoli in un oscuro archivio di speranze passate ed  esperimenti falliti.”4 Infine, ciò vuol dire anche rinunciare alle forme superate di rappresentanza  e di gerarchia che sono incompatibili con la politica delle alleanze inclusive. 
Un buon esempio che illustra quest’ultima tesi è il tentativo fatto da Artur Żmijewski nel  2012, quando ha cercato di esporre un’alternativa politica radicale nel contesto convenzionale  della Biennale di Berlino. La sua idea curatoriale era di utilizzare la mostra come uno spazio  quasi-pubblico dove gli attivisti potessero riunirsi, discutere i progetti e scambiare le  esperienze. L’esperimento che doveva dimostrare i principi dell’organizzazione orizzontale, ha  incontrato seri problemi all’interno delle strutture ufficiali come la Biennale, a partire dalle consolidate divisioni gerarchiche e funzionali dei ruoli. Gli attivisti accusarono i curatori di aver messo in scena un “circo performativo e politico.”5 

Questa situazione, paradossale, è sintomatica di ciò che sta diventando sempre più  evidente: l’esistenza di due mondi dell’arte paralleli e non sovrapponibili – quello uniformato  istituzionale e neoliberale versus quello pluralizzato e collaborativo che cerca il futuro oltre il  capitalismo. I due modelli si basano su relazioni economiche e sociali opposte, che  semplicemente non possono coesistere; perché la natura del neoliberalismo si riproduce  attraverso la costante colonizzazione e cooptazione di spazi, persone e idee nel nome del  profitto. Il mondo istituzionale si appropria delle tendenze artistiche più radicali solo per  proporre alternative superficiali a forme ed esperienze, altrimenti ottuse e superate. Come osserva il ricercatore e attivista Marco Baravalle, scrivendo sull’ultima edizione della Biennale  di Venezia (2022): […] Questa mostra è esemplare della funzione ideologica dell’industria dell’arte liberal democratica di oggi, una funzione di cooptazione che mobilita il postumanesimo, le teorie  del compost, i nuovi materialismi e il discorso decoloniale – a volte opportunisticamente, a  volte superficialmente, sempre con lo scopo di promuoverli allo status di una nuova logica  culturale del neoliberismo.6 
Nel suo articolo The Milk Of Dreams, or The Lukewarm Cup That Puts Commons to Sleep,  Baravalle afferma che i contesti istituzionali sono “macchine per la depoliticizzazione” dei  concetti che mettono in mostra. L’arte viene intenzionalmente “svuotata” della politica e del  conflitto in nome dell’interconnessione astratta e dell’inclusività acritica. 
Un precedente interessante è quello dell’ultima edizione di Documenta (2022), curata  collettivamente da ruangrupa, una piattaforma indonesiana di artisti-attivisti. Ruangrupa ha  scelto di mettere direttamente in atto una modalità alternativa di produzione – come base per  la realizzazione dell’intero evento. Invece di limitarsi a rappresentare e spiegare la politica, il  collettivo ha esplorato il potenziale di un sistema artistico alternativo praticando modelli  radicali di democrazia. Ruangrupa ha coinvolto quattordici collettivi, principalmente del Sud  del mondo, nella strategia di curatorial commons–beni comuni curatoriali–che aspira a mettere  in atto la condivisione dello spazio concettuale, economico e rappresentativo della mostra. I  gruppi invitati a loro volta hanno coinvolto altri collettivi e singoli nell’istituzione di una nuova  ‘ecologia’ artistica, basata sulle reti di collaborazione.  

La curatela di ruangrupa è stata duramente criticata dalla direzione di Documenta e dalla  stampa per il presunto antisemitismo e la mancanza del controllo sulla gestione della kermesse. Le accuse hanno provocato il ritiro collettivo di protesta dall’evento da parte di curatori e artisti,  principalmente non-europei. L’istituzione tradizionale, malgrado la fama progressista, come  Documenta, ha dimostrato la propria riluttanza nell’accogliere procedure capaci di minare le  relazioni di potere esistenti, attraverso il decentramento intenzionale e il rifiuto dell’autorità  gerarchica. Nonostante i discorsi sulla decolonizzazione e sull’inclusività, il mondo dell’arte  occidentale si è rivelato restio ad accettare soggettività che manifestano l’indifferenza verso  l’agenda europea e il rifiuto consapevole di adeguarsi ai meccanismi estetici ed economici della  fortezza della cultura ‘bianca.’ Questi due esempi –Venezia e Kassel del 2022– confermano l’idea che si è diffusa negli  ultimi anni: le strutture esistenti del potere artistico non sono in grado di esercitare il  cambiamento necessario per superare le disuguaglianze economiche, geografiche, di genere e  razziali. Essi rivelano un’organizzazione rigida e verticale, dove gli artisti e i curatori, i curatori  e l’amministrazione, l’istituzione stessa e il contesto circostante sembrano essere  completamente alienati l’uno dall’altro. Al contrario, il numero crescente di pratiche istituenti,  al di fuori degli assi del mercato e dell’insostenibile sistema dell’arte occidentale, costruito  attorno al capitale, alla divisione del lavoro e al mito dell’autore, conferma l’idea che l’arte  contemporanea ha bisogno di sperimentare nuove costellazioni sociali e ripensare le sue  fondamenta economiche e politiche. Il processo di nascita del mondo dell’arte internazionalista  (piuttosto che globalizzato), comune (invece del privato), cooperativo (anziché gerarchico) è  già in corso. 

Emblematico in questo senso è l’aneddoto che racconta Harold Szeemann, il curatore  della famosa mostra Live in Your Head: When Attitudes Become Form (1969) nel suo diario.7 A detta di Szeemann, l’artista italiano Piero Gilardi gli ha chiesto di rinunciare alla curatela  individuale della mostra e di sostituirla con l’assemblea di artisti. Szeemann, padre del modello  neoliberale del lavoratore culturale come imprenditore del sé e individualista iperconnesso,  aveva un’idea totalmente diversa di cosa significasse curatela e rifiutò l’idea di Gilardi.8 Tuttavia, sarebbe ingenuo incolpare una singola persona per aver perso l’occasione di attuare  una pratica comune: i tempi erano precoci, e la maggior parte degli artisti insisteva ancora sul  cambiamento del sistema da dentro.
Al giorno d’oggi, invece, la comunità di artisti e di attivisti è abbastanza matura per  sviluppare un mondo dell’arte alternativo sfruttando l’esperienza di pratiche collettive  indipendenti riuscite e imparando dai fallimenti di progetti compromessi da accordi con le  istituzioni. Nel 2022, secondo la classifica annuale dei personaggi più influenti nel mondo  dell’arte contemporanea, stilata da Art Review, il primo e il terzo posto nella Power 100 sono  stati attribuiti rispettivamente al collettivo indonesiano ruangrupa e ai sindacati di artisti-attivisti.9 When Collectives Become Form – quando i collettivi prendono forma – un nuovo e  comunitario mondo dell’arte è solo una questione di tempo. 

Yulia Tikhomirova è curatrice e ricercatrice, co-fondatrice del collettivo TIST. L’articolo è stato pubblicato nel primo numero del giornale FARò. Pratiche Estetiche Politiche,  gennaio 2023. 


1 Assemblism è un termine usato dall’artista olandese Jonas Staal per descrivere il ruolo dell’arte, della  performance e del teatro nell’assemblea performativa delle proteste di massa e dei movimenti sociali.
2 Florian Malzacher, “The Art of Assembly.”
3 Michael Hardt, Antonio Negri, Assemblea (Florence: Adriano Salani Editore, 2018).
4 Gregory Sholette, “Encountering the Counter-Institution: From the Proto-Academy to Home Workspace  Beirut,” in Future Imperfect: Contemporary Art Practices and Cultural Institutions in the Middle East, ed.,  Anthony Downey (Berlin: Sternberg Press, 2016), accessed December 27, 2022.
5 Olga Kopenkina, “Administered Occupation: Art and Politics at the 7th Berlin Biennale,” in Art Journal Open,  April, 2013, accessed December 27, 2022. 
6 Marco Baravalle, “The Milk Of Dreams, or The Lukewarm Cup That Puts Commons to Sleep,” in Necsus,  December, 2022, accessed December 27, 2022.
7 Christian Rattemeyer, “‘Op Losse Schroeven’ and ‘When Attitudes Become Form’ 1969,” in Afterall,  accessed December 28, 2022.
8 Marco Baravalle, L’autunno caldo del curatore. Arte, neoliberalismo, pandemia (Venezia: Marsilio Editori,  2021), 21.
9 Art Review website, December 2022.

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