Il problema è la stanza. Appunti non gestiti
emanuele rinaldo meschini
Durante una tesi di laurea sul tema della Riga International Biennial of Contemporary Art (RIBOCA) la candidata iniziò il suo discorso con questa metafora: Elephant in the room. I temi che trattava erano il displacement artistico, il contesto politico, le modalità del boicottaggio e quelle della resistenza. La tesi ha preso la lode perché rappresentava un ottimo studio sul campo. Per tutto il pomeriggio non ho fatto altro che pensare ai boicottaggi, agli elefanti, alle stanze, alle sbarre, ad uno sciopero dello zoo. Continuavo a ripetere Elephant in the room fin quando ho visualizzato un’altra immagine: Elephant in the circus. L’elefante non è più nella stanza, soprattutto, così come il problema non è più l’animale bensì, il suo contesto. Se prima era una stanza piccola e angusta dove la sua presenza era decontestualizzata e quindi evidente, ora l’elefante sembra essere tornato in cattività, l’ambiente sembra il più opportuno e quasi scompare alla nostra vista. Il circo
Nessuno dunque si accorge della sua presenza per il semplice fatto che ora è perfettamente inserito. Abbiamo ricreato il contesto di cattività. Non si tratta di istituzionalizzazione del dissenso, ma del suo completo capovolgimento e riassetto. Non abbiamo istituzionalizzato il dissenso, ma abbiamo creato lo spazio affinché il dissenso non venisse percepito più come tale.
30 anni di pratiche socially engaged e quasi altrettanti di critica cosa hanno portato?
Quasi 15 anni di occupy e commons cosa hanno portato? Oltre all’inglese, intendo.
Troppo contingenti e poco teorici o viceversa?
Cosa significa oggi la dittatura dello spettatore di Claire Bishop, il going public di Groys o le instutuent practices di Rauning? Sono ancora validi i principi deleuziani e più in generale, quelli dell’estetica hegeliana, nonostante, periodicamente ci sputiamo sù come se fosse un featuring tra Afterhours e Carla Lonzi? I nostri vocabolari e le nostre costruzioni di pensiero sono stati aggiornati o si sono sclerotizzati a quei primi anni 10 del Duemila, quando Žižek il rosso parlava a Zuccotti Park?
In cosa siamo cresciuti, qual è stato il nostro rito di passaggio all’età adulta, oltre il bando ministeriale e l’assegno di ricerca?
All’interno del circo, L’elefante non è maltrattato, il clown non fa ridere e l’equilibrista non cade mai. Perché all’interno del circo lo stupore e il dissenso non entrano. Chi va al circo, vuole il circo, ha pure comprato il biglietto. Il baraccone dei Freaks, come struttura alternativa al circo, sarebbe un paradigma troppo facile da eleggere a strumento e voce critica di contrasto, ma il fatto principale è che la critica (nel senso delle nostre parole) si dà nella fuga, andando oltre, seguendo persone che non hanno trovato posto neanche nella grande neo istituzione indipendente. Pensare/pretendere di aver qualcosa in comune e volerlo come desiderio in-comune è il canto del cigno capitalista. La commonizzazione del tutto, l’oggettività della protesta, il boicottaggio e la forma assembleare come meta critica, meta narrazione e concessione delle/dalle possibilità limitate. Il percorso del corteo di protesta concordato con la polizia per rispettare le norme anti degrado di una città che deve preservare i suoi murales.
Cosa abbiamo in comune? Non c’è risposta. Quello che viene dopo non è consequenziale.
La governance dell’autogestione, il paradigma critico di Fred Moten.
Policy e delegati ne gestiscono l’emanazione e la scalarità nei nostri contesti prossimi, in quei commons subito gestiti. Vorrei semplicemente che ciò che è comune non fosse messo a credito, vorrei che ciò che si ritiene comune – perché comunque è una pretesa sulla quale dobbiamo concordarci – non fosse portato al comune, gestito dal comune, bandito dal comune. Ciò che amo, senza desideri deleuziani, non può essere la mia attività. Amando Moten, ma non feticizzandolo rendendo così il suo pensiero inerme nella mia brutale ripetizione, c’è un under del commons nel quale vorrei stare. Un tunnel dal quale non vorrei uscire, ma arredare e questo invece lo diceva Noyz Narcos.
“La pianificazione negli undercommons non è un’attività […] ma l’incessante esperimento con la presenza suturale delle forme di vita che rendono tali attività possibili” (F.Moten, S.Harvey, Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero, Tamu, Napoli, 2021, p.160)
È come svegliarsi in un grande magazzino di Amazon, dove tutto è gestito dalla logistica. È come quella puntata di South Park in cui uno dei lavoratori, Josh, viene preso dalle macchine e trasformato in un pacco e come tale ospitato a talk e trasmissioni. Josh-pacco, diventa leader di un movimento e, “seduto” su uno sgabello, parla di Marx e della necessità di appropriarsi dei mezzi di produzione. Josh-pacco verrà poi ucciso da bambini che lo scartano (South Park, Unfulfilled, Season 22, Episode 9, 2018). Non ho paura dell’istituzione ma della gestione. Ho paura di essere trasformato in un pacco, ho paura di essere stivato e spedito. La logistica, come scrive, Moten è stata “fondata con il primo grande movimento di merci, quelle che potevano parlare. Fu fondata nella tratta atlantica degli schiavi, fu fondata contro la schiava atlantica” (p.155) La logistica trasporta ma non può contenere, né nel senso di confinare né in quello di comprendere. La logistica risponde alla governance che opera attraverso l’organizzazione degli interessi senza che ci sia nessun ethos collettivo. Dal momento che interessi e relazioni fanno parte della vita quotidiana, la governance diventa gestione dell’autogestione, ovvero, di quello che facciamo quotidianamente senza interessi. Nella governance come governo dell’autogestione non c’è obbedienza, ma auto sfruttamento perché questa governance si basa sulla “generazione di nuovi interessi verso la qualità” (p.104.) La governance non governa, ma lascia che siamo noi a creare il suo stesso lavoro, che siamo noi a monetizzare i nostri interessi. Ad auto stipendiarli e riscuotere. A differenza di quanto sostiene Negri, nella lettura che ne offre Moten, questo non crea valore dal basso ma “politica dal basso” (p.104) che è la governance messa all’opera (il controllo, la gestione, la privatizzazione)
“Così che dobbiamo avere diffidenza dei movimenti dal basso e sospetto della comunità quando quello che emerge dal basso è costituito da interessi, quando il valore dal basso diventa politica dal basso, l’autogestione è stata realizzata e la governance ha fatto il suo corso” (p.104)
Quando poi Moten scrive che i popoli della governance sono gregari e che la gregarietà è la forma di scambio del lavoro immateriale, penso a sostituire gregari con precari. Con paninari, anche per non feticizzare la parola, per non simbolizzarla, tenerla a-me come fosse mia soltanto. Paninari, stradivari, macchinari, feudatari, carbonari, nomivari. Ricottari. Trovare quel termine al quale proprio non ci si può affascinare/affezionare.
Mi rifiuto di mettere a valore le mie passioni e le mie parole.
In parte mi rifiuto di farne una critica professionalizzante, facendo però di questa fuga dalla messa a gestione, un temporaneo punto critico. Un’astrazione concreta.
La storia è ciclica e si ripete, quindi i dissidenti estremi si ribelleranno nuovamente contro quei dissidenti ora moderati. La questione è: se non abbiamo nulla, come possiamo reclamare qualcosa? Se tutto è contro, come individuo il contrario (l’avversario)? Soprattutto, devo essere l’ennesima persona che lotta contro il sistema in cui non crede inverandolo giorno dopo giorno davanti ai miei occhi, irrorandolo con la mia passione oppositoria? Il problema è lo sfaldamento della sanità pubblica, della difficoltà di richiesta di disoccupazione, del controllo ai tornelli e dell’accesso a pagamento in centro storico. Il problema è il diritto, ma soprattutto la scoperta che il patto hobbesiano li ha cancellati tutti. E tra questi è stato cancellato il diritto di critica come esercizio – quindi forma non strumentalizzabile e reificabile – di respiro e relazione sociale.
Se non hai nulla, non serve nulla, quindi non serve neanche la critica alla critica del boicottaggio e l’etica del post centro sociale. Corpi + spazi è stata l’equazione del nuovo ordinamento urbanistico del potere e le sue trasformazioni temporanee sono state seguite solo da chi non ha diritti, solo dall’informale.
In viaggio costante, servono davvero pochissime cose, appena quelle che entrano in uno zaino. Non potendo voler mettere radici non abbiamo creduto nella necessità di rivendicazione spazio temporali ma solo nell’esigenza di dare senso ai paesaggi che cambiano cercando di tenerci compagnia nel viaggio che è infinito. Non c’è punto di arrivo, quindi non c’è necessità di mettere punti. Lo diceva il profeta di Zocca nel 1989 “Liberi, liberi siamo noi però liberi da che cosa, chissà cos’è?”
A Bologna non rimane nulla, sgomberano tuttə, anche quelli che sembravano essere gli occupanti più integrati. Quindi che senso ha copiare o alterizzare l’istituzione, parassitarla o qualsiasi altra forma di convivenza? Nei processi glocali di ristrutturazione spaziale degli Stati “i governi nazionali non hanno semplicemente trasferito il potere verso il basso, ma hanno tentato di istituzionalizzare i rapporti competitivi tra unità amministrative subnazionali come mezzo per posizionare strategicamente le economie locali e regionali nei circuiti sovranazionali di capitale” (N.Brenner, Stati, spazio, urbanizzazione, Guerini, Miano, 2016, p.100). Posta in questi termini strategici, politici ed economici, l’istituzionalizzazione non é una conquista né una condanna bensì il normale processo di trasferimento del potere dall’alto verso il basso. L’istituzionalizzazione è una concessione inevitabile nel momento in cui qualcuno dal basso inizia ad assumere – nel senso che gli viene concesso – le funzioni dell’istituzione stessa entrando di fatto in un circuito capitale. Il problema non è l’elefante, ma la sua gestione.
Nella grande battaglia etica degli attivisti e dei critici dell’attivismo, inteso come professione, sembrano salvarsi solo quelli organici, quelli che continuano a mangiarne le membra, o le foglie (a seconda di come visualizzate il “sistema”). Che senso ha copiare un menù? È come “Gassman legge il menù”.
E ancora il profeta:
E cosa diventò, cosa diventò
Quella voglia che non c’è più
Cosa diventò, cosa diventò
Che cos’è che ora non c’è più
E cosa diventò, cosa diventò
Quella voglia che avevi in più
Eh
E cosa diventò, cosa diventò
E come mai non ricordi più, eh
Ta-ta-ra-ra, ta-ta-ra-ra, ta-ta-ra-ra, ra
Ta-ta-ra-ra, ta-ta-ra-ra, ta-ta-ra-ra, ra, eh
Newsletter numero dieci_ aprile 2024