Do you really want to hurt me – Culture Club, 1982(o della relazione tossica con l’università)
Lo cantava Boy George nel 1982 con i Culture Club “Do you really want to hurt me?/ Do you really want to make me cry?/ Precious kisses, words that burn me/ Lovers never ask you why”
Mi vuoi davvero fare del male, nel senso in cui io chiedo a me stesso, voglio davvero che mi sia fatto del male? (Oppure devo colpevolizzarmi per il dolore subito, per
l’incapacità di chiedere aiuto o per la possibilità di non aver verbalizzato un vocabolario dell’aiuto?)
Questo brano pop non spiega, di certo, il concetto di tossicità insisto nelle relazioni – non tutte ma molte – ma ci aiuta a capire come lo riusciamo ad interiorizzare così serenamente da cantarlo sotto un motivo dalla vena reggae pop. Ovvero, come riusciamo ad esprimere un concetto così profondo e doloroso al punto di cantarlo e ricantarlo, anzi, fino al punto di andarlo a ricercare nelle nostre playlist mentali. Questo brano non spiega ma ci fa vedere/cantare ed è applicabile a tutti quei casi in cui qualcosa di bello, aperto, armonioso, gioioso diventa tossico e malsano. Ecco l’università è questo. L’accademismo inteso come stile di vita è questo. L’università è Boy George
con la maschera di Marylin Manson che si insinua nelle nostre corde vocali fino a quando non saremo esausti di una litania motivazionale che in realtà cantiamo solo per non vedere quanto
stiamo andando giù. Come un coro allo stadio quando la propria squadra sta perdendo. Solo che in quel caso si è (in) una curva, un ammasso di corpi pressati e gaudenti che tra birre e droghe
ricreative si uniscono e oscillano come fossero un metronomo (anche in questo caso la tossicità è vorace, ma per lo meno è una mia scelta). La nostra canzone invece è solitaria e spesso ci troviamo a cantarla da soli all’interno di uno studio, che non è il nostro (al massimo abbiamo strappato la concessione di una scrivania temporanea) mentre leggiamo l’ennesima peer review
scritta con odio e in modo tutt’altro che oggettivo da qualcuno che ci giudica in maniera morale come fossimo un intoppo sulla sua strada.
Siamo li – anche se dovrei dire sono/sei – e ti chiedi il perché di tutto questo dolore. Eppure te lo chiedi cantando, perché conosci la tua patologia. La ricerca.
Lo scrivevano in maniera lampante, chiara, come fosse una chiamata ad personam, Stefano Harvey e Fred Moten nel 2013 nel loro The Undercommons, un manuale di auto aiuto e mutuo
sostegno più che un testo scritto da due docenti. L’università vive nella dimensione dell’oltre-didattica, oltre l’insegnamento e la ricerca, in una sfera di professionalizzazione rampante. In quella dimensione dell’anima scura, quella dell’oltre-didattica, resta intrappolata tutta quella schiera di patologizzati che, come noi, me e te, vengono visti alla stregua di naif non professionali che pensano, per l’appunto, solo a fare ricerca ed insegnare. Perché se tu vuoi fare stai facendo – questo all’interno dell’università devi essere un malato patologico. Non esiste, e su questo Moten e Harvey sono estremamente lucidi perché parlano da una posizione interna, nessun margine per lo studio nell’università così come la conosciamo, così come l’hanno fatta diventare. Se non hai una posizione di potere puoi capire queste parole. Se hai una posizione di potere, o ti sei fermato al sottotitolo, oppure continuando a leggere hai già ampiamente bollato queste parole come il sintomo malato di una persona frustrata che non c’è la fatta. E invece ce l’abbiamo fatta. Noi, io e te, tu ed io. Il problema è che per farcela ci siamo scavati un tunnel. Una lunga trincea sotterranea dalla quale sentiamo aggiornamenti e bollettini quotidiani che leggono i nomi degli oltre-didattici abilitati, degli oltre-didattici pubblicati che hanno formato un gruppo di ricerca mangiando le briciole che avevi lasciato. Eh si, perché tu ed io, la ricerca l’abbiamo polverizzata. Abbiamo fatto il giro intorno al problema e l’abbiamo risolto due volte facendolo diventare una nuova questione da problematizzare, abbiamo visto la tempesta e siamo usciti scalzi di corsa per raccontare cosa stava avvenendo. Ci siamo ammalati e qualcuno ha letto il nostro report dal fronte. Al posto nostro. Senza dire i nostri nomi.
Ma questo va bene.
Questo va bene? Te lo chiedo mentre canto Boy George.
Soprattutto, tu ed io, ci conosciamo?
Questa è la grande forza della tossicità universitaria imperante, del suo Dividi et Impera che è innanzitutto una divisione dei nostri cuori collettivi, delle nostre menti connesse, delle nostre mani giunte (non in preghiera). La tossicità, non è nel numero di paper accademici o di classe A da
scrivere in un anno (da solo), non è nell’essere il ghost writer non pagato di un bando europeo, non è nemmeno nella precarietà costante di assegni e cattedre a contratto. Non è nel fatto di
rimandare tutto a una dimensione futuribile inverificabile. Non è nel fatto di rinunciare alla propria vita personale, affettiva, e anche medica in alcuni casi. Non è nel fatto di essere sempre in movimento, in un continuo sentimento di displacement.
E nel fatto che non ci conosciamo e, peggio ancora, siamo in guerra.
Ma io non sono in guerra contro di te, anzi ti amo per il solo fatto che ad un’altra latitudine stai cantando Boy George. Ti amo perché siamo fatti della stessa cosa che si chiama studio, ricerca, condivisione, voglia di collaborare, costruire insieme. Ti amo perché, la sofferenza è la stessa così come la volontà di sopravvivere. Ti amo, ma non sei sola/solo anche quando sei sola/solo. Moten e Harvey dicono che il modo migliore per stare nell’università è quello di rubare all’università. Creare comunità fuggitive – parlano del processo di maroonage ovvero quelle comunità create agli schiavi fuggitivi – dove il sapere è al centro, dove c’è cura di noi, dove non ci sono prevaricazioni e dove non c’è tossicità. Mi chiedo se tutto questo sia possibile dal momento che anche gli attivisti hanno sfruttato la loro stessa base per emergere o che i medievalisti si sono
interessati all’improvviso di femminismo ed ecologia. Mi chiedo quanta sincerità possa esserci nella superficie dell’università e quanto bellezza invece, nel suo ventre oscuro e tumultuoso. Non ci piacciono gli illuminati ma dobbiamo illuminarci a vicenda per vedere dove portano i cunicoli che, in maniera certosina, abbiamo scavato nei nostri periodi di altissima povertà, nella nostra nudità estrema come direbbe Agamben che, proprio con l’università, non ha avuto un rapporto idilliaco. Per amarci nei nostri tunnel dobbiamo, però, ammettere questo nostro grado di povertà estrema come forza in-comune, fuori dal comune. Non avremo pensione, non abbiamo mai avuto ferie, non abbiamo malattia (pur essendo ai loro occhi malati), non abbiamo famiglie riconosciute. Perché continuare ad ostinarci in questo rapporto tossico delle/nelle nostre solitudini?
Tutti i nostri atteggiamenti patologici nascono da una posizione di subordinazione feroce, ovviamente coloniale e bianca dal punto di vista di Moten, che ha reso patologico ciò che non lo è
mai stato. È un colonialismo così bianco che il bianco non può vederlo perché ci sguazza dentro, e così lo chiamiamo precariato. Ora che la working class è stata appaltata all’ultra nazionalismo anche quello che credevi fosse operaio, fosse ultima classe, fosse classe, è diventato classista. Tu non stai male, tu non sei sbagliata. Non credere alla narrazione redentiva, non credere ad una funzione espiativa teleologica. Non c’è domani se non lo costruiamo insieme. Non credere ai miti
ordinari, cerca di essere sempre iconoclasta nella misura in cui sai che ogni costruzione mitica porta in sé il seme della sua stessa distruzione. Non lasciare che parlino per te, non lasciare che ti oggettivizzino a prodotto della ricerca o settore scientifico disciplinare. Soprattutto, non lasciare.
Prendi tutta questa marginalità e incontriamoci da qualche parte. Magari in biblioteca, magari in aula, magari al bar, magari al bar dello stadio.
Davvero ti vuoi continuare a fare del male?
Cerchiamoci, troviamoci.
ERM
Newsletter numero otto _ febbraio 2024