Voci dallo spazio


A cura di Davide Da Pieve 

Una rubrica di interviste realizzate a coloro che hanno gestito, partecipato o frequentato assiduamente spazi culturali alternativi. 

Spazi interstellari. Chiacchierata con DJ Balli

Dove nasce e qual è la tua esperienza con gli spazi alternativi bolognesi?

Ho fatto parte del Link Project durante tutta la sua esistenza, nella prima sede in via Fioravanti. Era un luogo in cui si poteva spaziare totalmente, dove poteva accadere di tutto. Per esempio, giusto per farti immaginare: il martedì spettacolo di danza; mercoledì free jazz o musica improvvisata; giovedì il cinema splatter; il venerdì magari c’era un gruppo come gli Schellac; il sabato c’era un rave e la domenica poesia sonora. Ci si muoveva a 360° tra quelli che erano ambiti culturali e sottoculturali. Al Link Project ho fatto varie cose. Ho partecipato allo sviluppo della BBS, una rete pre-internet composta da più nodi che prese il nome di Cybernet, nella quale si pagava ancora lo scatto alla risposta per l’accesso! Nello specifico si trattava di un primo tentativo di costruzione di una comunità virtuale, alla ricerca di un canale alternativo e autonomo, libero e fuori controllo. Divenne ben presto uno dei luoghi dell’hacktivism italiano: era un nuovo modo di intendere la comunicazione e fare politica. In seguito ho aperto l’Infoshop e l’ho seguito solo all’interno del Link Project, poi per merito di altri esiste ancora oggi in via Mascarella. Infine, facevo ovviamente anche il dj.
In quell’incrocio meticciato di percorsi culturali io ho trovato un po’ la mia università: è lì che mi sono formato.

In che modo la tua pratica artistica attraversava il Link Project?

Questo era un periodo in cui la musica elettronica cominciava a prendere il sopravvento e a dominare l’immaginario collettivo. Io provai a introdurre al Link Project – non senza qualche
resistenza da parte di altri amici linkioni – un genere di nicchia come il breakcore, del quale la mia label Sonic Belligeranza si occupa dall’inizio. Ricordo, divertito, che quando mettevo su qualche 12” breakcore nella Drum’n’Bass Arena, la sala nera del Link Project, mi arrivavano domande tipo: “Oh ma il disco è rovinato, suona distorto”! Invece si trattava
proprio di quella commistione tra ritmiche “nere” velocizzate (che andavano dalla jungle, all’hip-hop, alla dance-hall) e suoni “bianchi” provenienti dalla tradizione della musica
d’avanguardia colta oppure dalla musica industriale. Un cocktail mortale all’epoca perché aboliva molti dei confini che separavano la ricerca sonora dalle culture di strada.
Poi c’era il discorso dell’Associazione Astronauti Autonomi di cui organizzai al Link Project, nel 1998, la Conferenza Intergalattica, alla quale parteciparono astronauti autonomi da tutto il mondo, ma che dico, da tutto l’universo! L’idea era provocatoria, era una rivendicazione dei diritti a 360° attraverso cui volevamo avanzare richieste fuori dal dominio della forza di gravità e parlare di esplorazione indipendente dello spazio, di FUCK NASA, ecc. Un discorso che non era poi così fuori dalle orbite se pensi ai successivi tentativi astronautici condotti da plenipotenziari come Jeff Bezos o Elon Musk.

Altri spazi italiani alternativi di cui hai fatto esperienza?

In tutta Italia ho frequentato moltissimi centri sociali o spazi alternativi perché la musica che suono è per lo più legata a questi luoghi, da Palermo a Torino. Ho suonato anche in molti
club, ma si tratta di esperienze più recenti. Negli anni Novanta erano per lo più i centri sociali e spazi più sperimentali a interessarsi al mio sound in Italia, altro discorso andrebbe invece fatto per l’estero.
A Roma ho partecipato a numerose serate e spesso sono stato al Crack! Festival, come musicista, ma anche come venditore di libri e dischi. Numerose sono le edizioni del festival a cui ho preso parte, così sono entrato in contatto anche con il Forte Prenestino di Roma, una vera realtà a sé stante. I centri sociali a Roma sono molto variegati, per certi aspetti sono
molto legati al quartiere in cui operano, glocali, per usare un termine non più tanto di moda.
Altra situazione con cui ho avuto un rapporto privilegiato è stato il Macao, altra avanguardia stellare, altra situazione di quelle che ti fan dire che l’Italia di base è una merda, ma ci sono comunque delle eccellenze. Ecco lo spazio di via Molise a Milano è stato sicuramente una di queste eccellenze. Eventi di musica elettronica curati in maniera estremamente aggiornata
ai vertici della ricerca più contemporanea, booking innovativi e anche un modo di fare politica innovativo. Nonostante tutti i problemi, gli immancabili scazzi interni, le rotture dei collettivi, il Macao è stata un’altra realtà leggendaria di cui si sente la mancanza a Milano e in Europa.

E invece per quanto riguarda l’estero? In quali luoghi hai performato oppure hai frequentato?

Sempre nel corso degli anni Novanta sono stato a Londra, dove a livello di spazi alternativi ho frequentato principalmente uno squat, il One 2 One, un’occupazione proprio di fronte al
Brixton Market a South London. In generale gli squat londinesi dell’epoca erano qualcosa che principalmente dava un’alternativa al pagare un affitto nella megalopoli, lavorare, ecc.
A suo modo quello dello squatter era una vera occupazione full time che dal risveglio mattutino si preoccupava di prendere la legna da ardere per il riscaldamento, fino allo skipping serale fuori dai mercati alimentari per recuperare tutti gli scarti edibili della giornata. Se poi ci aggiungi il discorso di non pagare i mezzi di trasporto, grazie a tutta una serie di
tricks – tipo aspettare le 5 di pomeriggio, momento in cui tornavano dalla city i lavoratori commuters verso le loro abitazioni e buttavano via le daily travelcard all’uscita della metro – si creava la possibilità per lo squatter di recuperare biglietti abbandonati per dare inizio a vagabondaggi psicogeografici che azzeravano il tempo per organizzare eventi. Il One 2 One non era uno squat abitativo, non era nemmeno un centro culturale. Di base era un infoshop alternativo che organizzava cene vegane a offerta libera e di tanto in tanto eventi di musica elettronica non allineata. Quelle serate di musica elettronica da ballo a South London sono
state il pentolone in cui si è forgiato gran parte del nuovo linguaggio dell’hardcore dance che poi si è imposto negli anni a seguire globalmente: dal breakcore allo speedcore.
Invece l’EKH – Ernst-Kirchweger-Haus di Vienna era uno squat anche abitativo che però riusciva ad avere una programmazione abbastanza serrata di eventi – di base concerti punk/hardcore/crust/grind o rave di svariati tipi di musica elettronica. Era sicuramente lo squat austriaco più grande, con un’intensa attività politica di solidarietà e accoglienza ai
rifugiati, accompagnata dalle immancabili cene sociali vegane, l’hacklab, la palestra di autodifesa, ecc., nel quale avrò suonato una 20ina di volte. L’EKH è un posto enorme suddiviso in 4 piani che esiste ancora oggi in versione legalizzata.

In generale, tenendo in considerazione anche la proposta istituzionale degli stessi anni, qual è l’idea d’arte che hai trovato negli spazi alternativi di cui hai fatto esperienza?

Maggior interesse per fenomeni culturali marginali e non indagati dai media. Ovvero ciò che, in definitiva, uno spazio alternativo dovrebbe fare istituzionalmente, se mi consenti il
giochetto;) Sottolineo la cosa perché in molti casi questa mission è andata persa, tanto che personalmente fin dagli anni Novanta ho cercato di andar oltre a certe retoriche degli spazi
non allineati portando avanti un programma di esplorazione dello spazio (nel senso di fuori dell’orbita terrestre), la già citata Associazione Astronauti Autonomi, che tra il serio e il faceto
problematizza la questione della colonizzazione a gravità zero. Sicuramente l’A.A.A. è una provocazione, ma lascia che ti faccia un esempio. Se negli anni Trenta qualcuno avesse detto che sarebbe riuscito a fare un’intervista video a distanza attraverso una app per telefono – come quella che stiamo facendo ora – sarebbe stato preso per un fuori di testa.
Voglio dire che l’iter è decisamente quello del calo dei costi della tecnologia – basti pensare ai computer: prima esclusivamente macchinari che occupano stanze nei centri di ricerca poi con la microinformatica oggetto comune a portata di tutti. E se questa del calo dei costi della tecnologia è la tendenza, allora è davvero così insensato pensare che in un lasso di tempo che non so indicare con precisione (dato che non sono un Nostradamus) anche i costi delle tecnologie aerospaziali scenderanno vertiginosamente, tanto da far sì che un giro fuori
dall’orbita rientri come una possibile cosa da fare durante una giornata noiosa?

Arrivando ai nostri giorni, in attesa di organizzarci per le occupazioni di satelliti, quali spazi interessanti vedi a Bologna?

Certamente l’Ex-centrale è un posto molto interessante, anche solo per il fatto che non ti chiedono la tessera all’ingresso! Ma anche perché ha una bella programmazione e assomiglia di più a quello che era un centro sociale degli anni Novanta aggiornato a oggi. C’è un sound molto buono ed è curato in tutti gli aspetti. Si tratta di uno spazio che riprende una tradizione, ma la rilancia e la contestualizza nel mondo attuale in modo efficace.

Due parole anche sui club. Non ti sembra che oggi, a differenza degli anni Novanta, anche molti club si interessano alla sperimentazione?

Assolutamente sì! Anzi, forse oggi certi club sperimentano di più di quello che rimane dei centri sociali, in certi casi si può dire che i ruoli si sono un po’ invertiti.

Quali sono stati secondo te dei passaggi importanti che hanno determinato queste inversioni di rotta?

AH! Difficile a dirsi. Stando su un piano molto pratico, posso solo ipotizzare che certi spazi sociali abbiano dei plenum, delle assemblee di gestione con folte presenze (talvolta vere
comunità, anche centinaia di persone) e si sa che mettere d’accordo gli esseri umani è cosa davvero assai complessa. Ora magari un club che ha una gestione amministrativa più snella, potrebbe risultare più sul pezzo, non dovendo attraversare tanti passaggi di collettività, nel, chessò, tirare fuori una programmazione più innovativa. Solo un’ipotesi la mia eh….

Poi c’è anche tutto il discorso della legittimazione e istituzionalizzazione. Cosa ne pensi delle concessioni dei luoghi?

Anche questa faccenda bifronte, intricata, di difficile risposta. Dipende veramente da caso a caso. Per certi versi la concessione può essere un viatico verso la standardizzazione delle proposte musicali, ecc.; in altri casi il consolidamento, perché operare con maggiore stabilità dà la possibilità di rafforzare e radicalizzare la programmazione. Parlando di Bologna, dove vivo, la già citata Ex Centrale mi sembra un ottimo esempio di concessione che continua ad avere un significato e un valore politico/estetico, poi potrei farti altri esempi che non lo sono però. Davvero non c’è una regola, 1+1 fa 3 in questo caso.

Cosa diresti al giovane te stesso se cominciasse oggi la sua carriera?

Gli direi ascolta “FOREVER YOUNG” degli Alphaville.

Newsletter numero otto_ febbraio 2024