Sale Docks di Venezia – uno spazio di permanenza radicale.
Yulia Tikhomirova (Collettivo TIST) intervista Marco Baravalle (Sale Docks).
Dicembre 2023
A partire dall’inizio del secolo, a livello internazionale, abbiamo osservato un crescente numero di nuove forme di produzione culturale mirate a creare strutture autoriali ibride, aperte alla partecipazione di esponenti di varie professioni e del pubblico. Queste iniziative hanno contribuito a sfumare i confini tra l’individuo e il collettivo, tra l’opera e la pratica. La tendenza a esercitare l’arte al di fuori dei confini del neoliberalismo estrattivo cresce parallelamente alla diffusione dei movimenti anti-globalisti. Tuttavia, entrambi subiscono l’impatto del declino della democrazia rappresentativa e della stretta conservatrice del secondo decennio. Ciononostante, sembra che si sia verificato uno spartiacque, e l’esistenza di due mondi dell’arte paralleli e non sovrapponibili diventa sempre più evidente: da un lato, quello uniformato e neoliberale delle biennali e delle fiere; dall’altro, quello autorganizzato e pluralizzato delle realtà definite indipendenti e no-profit. Marco Baravalle, noto curatore, ricercatore e attivista italiano, uno dei fondatori del centro culturale Sale Docks a Venezia1, ha vissuto in prima persona la realizzazione di un para-sistema dell’arte nella città simbolo per eccellenza del fenomeno della finanziarizzazione dell’arte contemporanea. Nei suoi recenti articoli e nel libro L’autunno caldo del curatore2, pubblicato durante la pandemia, Baravalle parla di una vera e propria svolta ‘alteristituzionale’ avvenuta nel sistema culturale, affermando la possibilità di costruire spazi d’arte radicalmente politici.
YT: Il fenomeno di alteristituzionalità menzionato nella tua ricerca sembra riferirsi alle stesse pratiche artistiche che Gerald Raunig ha definito pratiche instituenti, Gregory Sholette mockstitutions, Izabel Galliera auto-istituzionalizzazione, e Terry Smith insieme a Zoe Butt attivismo infrastrutturale. Perché hai sentito la necessità di introdurre un nuovo termine? Devo ammettere che, all’orecchio, è sicuramente più accessibile rispetto agli altri.
MB: Il termine alteristituzionalità è una mia creazione. Forse non era strettamente necessario introdurre un nuovo termine, ma ero interessato a enfatizzare l’aspetto di alterità rispetto alla struttura istituzionale neoliberale.
YT: Nei tuoi testi, ti riferisci a Deleuze e al suo modo di interpretare il concetto di istituzione, intesa come un’entità flessibile in grado di rispondere alle esigenze dei gruppi sociali. Tuttavia, nell’immaginario comune attuale, l’istituzione è percepita come qualcosa di stabile, burocratico, immutabile e non in dialogo diretto con nessun gruppo sociale.
MB: Per parlare di alteristituzioni, è necessario fare riferimento a posizioni teoriche sulle istituzioni che non le vedano semplicemente come agenti disciplinari, ma anche in un senso positivo. Hai citato correttamente Deleuze, il quale concepisce l’istituzione come un dispositivo per organizzare un desiderio sociale, dunque in un’accezione positiva. Come rende chiaro questo senso positivo attribuito all’istituzione? Lo fa contrapponendola alla legge. Deleuze afferma che le società democratiche sono quelle che hanno molte istituzioni e poche leggi, mentre le società autoritarie sono quelle con molte leggi e poche istituzioni. Mi baso sulla teoria deleuziana dell’istituzione, ma attingo anche dalla teoria post-operaista.
Penso, ad esempio, a Toni Negri e Michael Hardt, che, per distinguere l’insurrezione dalla rivoluzione, parlano di una volontà di diritto, ossia una spinta istituente. Si tratta di movimenti che affermano il cambiamento attraverso la creazione di istituzioni. I post-operaisti, 15 anni fa, riflettendo sui nuovi centri sociali e sulle nuove forme di organizzazione di movimento, parlavano anche di institutions of the commons. Questa è un’altra etichetta possibile da affiancare a quelle che hai già citato, come la mock-institution e altre.
Dunque, l’alteristituzione si basa sull’idea della possibilità che modelli non neoliberali, modelli comuni, possano essere implementati. Questo implica non solo un lavoro necessario di destrutturazione e opposizione alle istituzioni esistenti, ai poteri costituiti, alle istituzioni neoliberali, ma anche la possibilità di costruire nuovi modelli istituzionali. A volte partendo da zero, a volte con un approccio di riformismo radicale in alcune istituzioni esistenti, come ad esempio alcuni musei. Ciò non toglie che oggi, dal punto di vista dell’arte, siamo di fronte alla necessità di essere coinvolti in un duplice movimento. Ed è importante ascoltare le posizioni abolizioniste, sempre più diffuse nel mondo dell’arte, in particolare negli Stati Uniti.
YT: Quali sono le pratiche abolizioniste odierne che ritieni efficaci?
MB: Decolonize This Place è un movimento newyorkese che negli ultimi cinque-sei anni si è impegnato in modo radicale per la decolonizzazione dei musei. Alcuni musei non possono essere decolonizzati per diverse ragioni. Negli Stati Uniti, ad esempio, i consigli di amministrazione dei musei privati sono troppo legati alle politiche coloniali e a settori come il business delle prigioni e la produzione di armi. Questo fenomeno è noto come filantropia tossica o toxic philanthropy, dove i grandi miliardari globali, che traggono profitto da attività estrattive, utilizzano l’arte come una forma di artwashing, ovvero di lavaggio di immagine. Di fronte all’artwashing dei musei contemporanei, non c’è spazio per il riformismo: quei musei devono essere aboliti.
Il vocabolario è cruciale. L’abolizionismo era un movimento negli Stati Uniti che, fin dall’Ottocento, lottava contro la schiavitù e la supremazia bianca. Oggi, l’abolizionismo si concentra principalmente sull’abolizione del complesso industriale carcerario, noto per le sue evidenti caratteristiche di razzializzazione, e sull’abolizione di un apparato di polizia che agisce in modo razzista. Questo vocabolario è stato introdotto anche nel movimento decoloniale nei musei. Ci sono musei che sono irrimediabilmente corrotti. Per esempio, a Venezia, c’è una sede della VAC Foundation che, a mio parere, è un museo irrecuperabile e deve essere abolito. Il fondatore, Leonid Mikhelson, un oligarca russo del settore del gas, molto vicino al Cremlino, incarna ciò che Andreas Malm definirebbe “fascismo fossile”3,l’unione tra business estrattivo e potere politico. Questo fenomeno si verifica a livelli diversi in tutto il mondo.
YT: Intendi che le istituzioni artistiche o i musei gestiti privatamente sono più difficili da riformare rispetto ai musei comunali, che, anche se possono adottare politiche reazionarie, hanno intrinsecamente la possibilità di essere riformati in quanto di proprietà pubblica?
MB: È indubbiamente così, e questa rappresenta una grande differenza tra gli Stati Uniti e l’Europa. Nel suo ultimo libro, Françoise Vergès, femminista decoloniale francese nata e cresciuta a La Réunion, un’isola vicino al Madagascar, ritiene irreformabili e sostiene la necessità di abolire i grandi musei pubblici come il Louvre o il British Museum4. La loro storia è troppo intrecciata alla tragedia coloniale e ai crimini del colonialismo: molte delle opere che ospitano sono il risultato di saccheggi coloniali. Per concludere questa riflessione: perché Decolonize This Place è diverso dalla Art Workers Coalition? Entrambi hanno condotto una campagna contro il MoMA. Nel 1969, la Art Workers Coalition sosteneva che il MoMA dovesse migliorare, decentralizzarsi, dare maggiore riconoscimento agli artisti e considerare le minoranze. Vedevano il MoMA come un campo di battaglia, uno spazio che doveva appartenere di più agli artisti. Nel 2021, Decolonize This Place afferma: critico ancora il MoMA, ma non ne voglio più sapere; quell’istituzione è irrecuperabile, va abolita, non c’è alcuna possibilità di recupero.
YT: Mi viene in mente ciò che ha scritto Isabel Galliera, ma anche molti altri, sul passaggio dall’institutional critique, ormai rivelatosi inefficace, all’alterinstitutional turn: anziché criticare dall’interno, si crea un’istituzione parallela che opera in modo totalmente diverso.
MB: Infatti, qui entra in gioco l’alteristituzionalità. Françoise Vergès e molti intellettuali che si occupano di abolizionismo sottolineano una cosa importante: l’abolizionismo è un movimento che non solo destruttura e abolisce, ma anche fonda e istituisce. È un movimento che afferma: liberiamoci dell’istituzione esistente e costruiamone di nuove. Quindi c’è un aspetto alteristituzionale nell’abolizione che porta alla creazione di altri spazi, altri circuiti. Il problema è definire cosa debbano essere questi spazi. Ovviamente, esistono infrastrutture di movimento radicali e indipendenti, ma il tema è come svilupparle a un livello significativo.
A livello internazionale, oggi non esistono reti di alteristituzioni artistiche capaci di competere con le istituzioni artistiche neoliberiste o capitaliste. D’altra parte, in Europa, dove ancora esistono musei pubblici d’arte contemporanea o moderna, alcuni direttori di museo, in particolare quelli della rete dei musei L’Internationale5, hanno dimostrato come sia possibile praticare l’alteristituzionalità anche all’interno di grandi istituzioni pubbliche. Prendo come esempio la gestione degli ultimi 15 anni del Museo Reina Sofia di Madrid da parte di Manuel Borja-Villel, oggi ex direttore del museo. Manuel ha cercato di riflettere, non da solo ma insieme ad altri, su come trasformare il ruolo sia sociale sia epistemologico del tipico museo neoliberale. Parla del museo costituente o del museo situato. Che cos’è il museo situato? È un museo che abbandona l’ideale dell’universalità, tipico del museo europeo illuminista, ovvero l’idea di essere il custode della cultura e delle arti universali. Situare significa riflettere sulle origini della collezione, sull’impatto che il museo ha sul quartiere e sulla città, sulla narrazione veicolata dalle mostre, su come rendere il museo accessibile non solo ai visitatori, ma anche, per esempio, alle soggettività subalterne.
Un esempio concreto è il progetto El Museo Situado del Museo Reina Sofia6,che ha cercato di invertire il solito rapporto tra museo e contesto. Di solito, un grande museo, specialmente se di grande prestigio, diventa un agente di gentrificazione nei quartieri circostanti. Borja-Villel, invece, ha collaborato con gruppi di migranti e con i movimenti sociali del quartiere Lavapiés, dove si trova il museo, mettendo a disposizione spazi e risorse, offrendo il museo come uno spazio aperto anziché come “nemico” delle classi popolari. Ha cercato di lavorare sulle collezioni contestualizzandole nel contesto politico e sociale, dando alla collezione una prospettiva materialista piuttosto che idealista. In altre parole, anziché collocare le opere solo nella storia dell’arte, le ha inserite nella storia politica e sociale della Spagna e oltre.
YT: Ho una curiosità. Pensando al lavoro portato avanti dai musei del circuito L’Internationale, possiamo considerarli come esempi di alteristituzioni governamentali? Allo stesso tempo, sembra che anche i progetti creati nell’ambito museale, come Silent University di Ahmet Ögüt o Immigrant Movement International di Tania Bruguera, pur essendo legati ai nomi di artisti affermati e ai fondi e quindi soggetti alle logiche del capitale, possano rientrare nella categoria di alteristituzionalità governamentale?
MB: Certo. Quando parlo di istituzioni governamentali, non intendo istituzioni direttamente legate al governo, ma mi riferisco al concetto foucaultiano di governamentalità. Secondo me, le istituzioni tipicamente governamentali, sia pubbliche che private, come i musei (ma non le gallerie), le biennali o gli spazi per l’arte non profit, sono quelle che cercano seriamente di proporre modelli istituzionali alternativi al neoliberismo. Includo in questa definizione anche quelle istituzioni che nascono come opere d’arte – quali parlamenti, università, biblioteche, scuole e musei. Le definisco governamentali perché sono luoghi in cui la critica, la libertà e il differenziale democratico possono esistere, ma che possono anche essere cooptati all’interno dei confini del neoliberismo. Il neoliberalismo consente uno spazio alla critica, ma solo per neutralizzarne il potenziale trasformativo, trasformando la critica da agente di cambiamento sociale a mera opera d’arte.
YT: Secondo te, in un ambiente culturale generalmente acritico, è ancora possibile creare uno spazio minore e critico, nonostante il rischio di cattura e appropriazione da parte del sistema neoliberale?
MB: La possibilità dipende dalla capacità di chi crea queste opere o dirige queste istituzioni, nonché da chi le vive e le attraversa, di discernere se tali operazioni si trasformano in mere finzioni o se rimangono autentiche; se il femminismo, il marxismo, il postumanismo e l’antispecismo diventano semplici parole d’ordine per sostenere un sistema oppure se questi luoghi rappresentano veri spazi di pratica politica femminista, marxista, postumana, antispecista. Vorrei tornare ancora sull’esempio del museo Reina Sofia, poiché l’impegno dell’ex-direttore Borja-Villel è stato serio e contestualizzato. Il museo non si è limitato a realizzare mostre sui movimenti sociali, ma si è attivamente impegnato per la sopravvivenza e la difesa di centri sociali come La Ingobernable di Madrid, La Casa Invisible di Malaga e il Sale Docks di Venezia, di cui faccio parte.
Un altro esempio contestualizzato è la collaborazione del museo con l’associazione Red Conceptualismos del Sur7, 2wche riunisce archivi militanti del Sud America. Invece di praticare l’estrazione culturale, che comporta l’appropriazione del patrimonio popolare sotto il pretesto della sua valorizzazione e conservazione museale, il Reina Sofia ha optato per lasciare gli archivi dove si trovavano, prelevando solo alcuni documenti da esporre temporaneamente nella sede di Madrid, in un’operazione epistemologicamente rilevante. Attraverso la combinazione di documenti storici e arte, Borja-Villel decostruisce la visione idealistica dell’opera d’arte, tradizionalmente narrata come un’evoluzione lineare di stili. La presenza dei documenti spinge a considerare le opere in una prospettiva materialistica. La Guernica di Picasso, ad esempio, non emerge solamente come un’evoluzione stilistica del lavoro di Picasso, né come mero esempio del cubismo, ma si afferma come espressione di protesta democratica nel contesto della guerra civile spagnola, una reazione politica ad un contesto concreto.
YT: Per quanto radicale possa essere, la pratica di Borja-Villel resta comunque strettamente legata al suo nome e alle tempistiche e necessità del sistema museale. Al contrario, le pratiche alteristituzionali autonome, a differenza di quelle governamentali menzionate in precedenza, sembrano minare la struttura stessa delle relazioni economiche, politiche e interpersonali, liberandosi dall’autorialità individuale. Potresti illustrare queste pratiche autonome, includendo anche la tua esperienza con il Sale Docks a Venezia?
MB: Sono perfettamente d’accordo con te. Dalla mia prospettiva, le alteristituzioni autonome nel campo artistico sono spazi, organizzazioni, gruppi e luoghi nati principalmente da impegno sociale all’interno di movimenti più ampi, che coinvolgono artisti, lavoratori dell’arte e curatori. Spesso si concretizzano attraverso l’occupazione di spazi abbandonati per rivendicare una visione dell’arte diversa da quella tradizionale. Non rappresentano l’espressione di un singolo progetto artistico o curatoriale, ma piuttosto di un’azione politica collettiva.
Prima di parlare del Sale, voglio citare un altro esempio che considero particolarmente significativo. L’archivio Mosireen8 è nato nel cuore della rivoluzione egiziana del 2011, fondato da un collettivo di artisti e videomaker attivi nella lotta sociale. Inizialmente, hanno allestito una tenda in piazza Tahrir per raccogliere materiale video delle manifestazioni. Successivamente, hanno trasformato un appartamento vicino in un vero e proprio centro multimediale e hanno organizzato proiezioni cinematografiche direttamente in piazza. Di fronte alla repressione, sono stati costretti a chiudere lo spazio fisico e l’archivio è stato trasferito online, rendendo disponibili oltre 800 ore di filmati grezzi sul movimento. Lo spazio virtuale è stato sviluppato con software open source per facilitare l’accesso ai materiali. Mosireen rappresenta un archivio che opera con principi di creazione, gestione, accesso e posizionamento politico completamente diversi dalla maggior parte degli archivi tradizionali. Mentre lo stato egiziano ha tentato di cancellare la memoria del movimento, Mosireen ha creato un contro-archivio. Questo rappresenta un esempio eccellente di alteristituzione autonoma nata dalla mobilitazione sociale. In modo simile, anche il Sale Docks opera secondo questi principi.
YT: Il progetto Sale Docks è nato nel 2007 dopo l’occupazione dei Magazzini del Sale, da cui prende il nome, uno spazio che era da tempo in disuso nel cuore di Venezia. Questo segue le orme dei centri sociali autogestiti che, a partire dagli anni settanta, sono diventati una significativa espressione della controcultura e della mobilitazione dal basso in Italia.
MB: Esattamente, il Sale è nato nel 2007 dall’occupazione condotta da un gruppo di attivisti dei centri sociali veneziani e lavoratori precari dell’arte. Sin dall’inizio, si è posto un duplice obiettivo: primo, servire come punto di riferimento per le lotte dei lavoratori dell’arte e agire come osservatorio critico sull’economia dell’arte a Venezia; secondo, offrire uno spazio per la produzione artistica che si distacchi dai modelli tradizionali presenti in città.
Nei primi cinque anni abbiamo operato in uno stato di occupazione. Successivamente, siamo riusciti a stabilire un accordo formale con il Comune di Venezia, che è proprietario dell’immobile, ottenendo così una legittimazione legale per l’uso dello spazio. Pagando un canone annuale, abbiamo mantenuto la gestione dello spazio. Tuttavia, nel 2019, con l’elezione del sindaco Luigi Brugnaro, esponente della corrente di centro-destra, la nostra convenzione non è stata rinnovata. Da allora, dopo sedici anni di attività ininterrotta, ci troviamo in una situazione di incertezza legale.
YT: Potresti descrivere la gestione economica dello spazio, la struttura organizzativa dietro al progetto e come è organizzato il vostro gruppo?
MB: Il Sale Docks opera come un’associazione culturale e la nostra organizzazione si basa sull’assemblea, che è il nostro organo decisionale sovrano. La nostra comunità non è vasta; il gruppo centrale è formato da circa dieci persone. Oltre a questo nucleo, ci sono molti amici e sostenitori, sia locali che esterni, che ci aiutano su questioni specifiche. La responsabilità finanziaria ricade interamente su di noi; non beneficiano di finanziamenti pubblici, né da parte del Comune né dello Stato. I progetti che portiamo avanti trovano finanziamenti attraverso grant esterni. In passato, abbiamo largamente fatto affidamento sull’autofinanziamento, ma di recente siamo riusciti a coprire le nostre spese istituzionali grazie ai grant ricevuti. È fondamentale evidenziare che noi, come membri attivi dell’associazione, non percepiamo alcuno stipendio. L’attività che svolgiamo presso il Sale è motivata da un impegno attivista, e solo specifiche attività vengono compensate economicamente. Ad esempio, forniamo un rimborso a chi si dedica per circa 20 ore a settimana alla gestione delle mostre in corso. La nostra capacità di sostenibilità e adattabilità deriva dal fatto che la maggior parte del lavoro è svolta su base volontaria, che per noi rappresenta la nostra forma di impegno culturale.
YT: Parlando del movimento dei lavoratori dell’arte, è piuttosto singolare questa caratterizzazione all’inizio degli anni Duemila in Italia. Mi viene da definirlo un caso precoce che nasce proprio a Venezia, immagino, a causa della presenza della Biennale?
MB: Devo dire che in Italia, il grosso movimento dei lavoratori dell’arte è esploso nel 2011, quindi quattro anni dopo che noi avevamo occupato lo spazio. È stato trainato dall’occupazione del Teatro Valle di Roma, poi dall’occupazione della Torre Galfa e la successiva creazione del centro culturale Macao a Milano. Credo che noi siamo stati in qualche modo pionieri. A partire dal 2005 abbiamo iniziato a riflettere collettivamente sulla trasformazione della città. Venezia si stava convertendo da una città d’arte tipica a una città del contemporaneo. La Biennale aumentava in numero di visitatori e di paesi partecipanti, crescendo fisicamente e in volume di affari, pubblico e lavoratori. Iniziavamo a vedere un processo che oggi è esploso: i grandi miliardari globali aprono un proprio museo o fondazione a Venezia. Nel 2007 vedevamo François Pinault che comprava prima il Palazzo Grassi dalla Fiat e poi restaurava la Punta della Dogana per farne il suo museo. Oggi questo trend è scoppiato: abbiamo François Pinault, abbiamo Leonid Mikhelson con la VAC, abbiamo Thyssen-Bornemisza con il centro Ocean Space, abbiamo il banchiere miliardario statunitense Nicolas Berggruen con il Berggruen Institute. Noi volevamo offrire un’alternativa proprio a questo. Sembra che ormai A Venezia arte volesse dire semplicemente avere un sacco di soldi. Noi contestavamo questa riduzione dell’arte a sostanzialmente un compendio della ricchezza finanziaria.
Da una parte avevamo la Biennale considerata un patrimonio per la città, l’hub globale dell’arte contemporanea. È un luogo dove atterrano i progetti artistici, ma dal punto di vista della produzione è una macchina che non è riuscita e forse non è mai stata interessata in questi ultimi vent’anni ad appoggiare la cultura in città. Dall’altra parte avevamo, appunto, queste grandi fondazioni private. E in mezzo ci mancava uno spazio di progettazione culturale, uno spazio artistico indipendente, e che questa indipendenza fosse un fatto politico, situato. Noi cerchiamo di costruire un’arte che sia sempre un’azione di critica del presente e che non si riduce all’evento, alla proprietà.
YT: Per l’indipendenza intendi una struttura alternativa in termini politici ed economici? Per voi, l’arte è un linguaggio utile per portare avanti un’influenza politica sulla società?
MB: Non ragioniamo in modo strumentale. Non crediamo che l’arte debba essere strumentale alla politica; non c’è una gerarchia. Siamo convinti che l’arte abbia la propria autonomia, ma questa autonomia è illusoria se non è anche autonomia dal capitale. Al Sale, concepiamo l’arte come strettamente legata ai percorsi politici, ma va anche rispettata, richiamandoci a Jacques Rancière, in quanto ambito sensoriale capace di aprire prospettive sull’altrove, su un’altra realtà possibile. Personalmente, non sono a favore di un’arte al servizio della politica, bensì per la scoperta della radicalità dell’arte. Questa radicalità, questa ricchezza e specificità dell’arte non emergono quando viene ridotta a un evento mondano o a una proprietà. Senza scoprire il potenziale radicale dell’arte, si rischia di fare solo finta di trasformare la realtà e, di fatto, di confermare lo status quo.
YT: Perciò, la questione non riguarda tanto il contenuto specifico di un’opera o di un progetto, ma piuttosto le condizioni e il contesto della produzione e dell’esposizione al pubblico?
MB: Il tema è complesso e coinvolge diversi livelli. Riprendiamo l’esempio della Fondazione VAC, che nel 2017 ha presentato una mostra sulle avanguardie sovietiche degli anni ’20. La riproduzione in scala uno a uno del Club dei Lavoratori di Aleksandr Rodčenko, i manifesti della rivoluzione d’Ottobre, una riproduzione del Dresden Room di El Lissitzky. Per me, c’è un odore di morte, una pietra tombale sulla radicalità e sul potere sovversivo di quelle esperienze, opere e lavori. Non c’è una visione materialistica della collezione, ma totalmente idealistica. Questi lavori sono utilizzati come un’evoluzione stilistica in una storia dell’arte che non ha nulla a che fare con la vicenda storica che invece hanno interpretato. Credo che una mostra di quel tipo debba cercare di parlare anche del presente, cercare materialisticamente di connettere quella sovversione estetica a una possibilità di apertura critica sul presente. Questo, a mio avviso, è un lavoro storico che rispetta la verità di quegli artisti, architetti e designer.
Nello stesso luogo, il collettivo londinese Assemble9, per altri aspetti interessante e vincitore del Turner Prize, ha curato il giardino della fondazione. Il discorso curatoriale presentava il giardino come un’interfaccia tra l’istituzione e la città e come porta all’interno l’ecosistema lagunare. Per me, semplicemente, non va bene! Creare un giardino, per quanto bello, per un magnate del gas, non contribuisce affatto all’ecologia o alla comprensione dell’ecosistema. Si finisce per partecipare, anche involontariamente, a un’operazione di artwashing, ovvero di pulizia dell’immagine attraverso l’arte.
YT: Come funziona, invece, il contesto di produzione dei progetti che portate avanti al Sale?
MB: Parliamo di un caso concreto. Dal 17 al 20 aprile 2024 avremo un evento intitolato A Gathering into a Maelstrom10, che includerà due giorni di programmazione. Oltre a presentare i contenuti artistici sia all’interno del Sale che in vari luoghi della città, presenteremo anche un libro dal titolo Art for Radical Ecologies. Come è nato il libro? Non abbiamo seguito il consueto iter di chiamare le persone più influenti per scrivere saggi su arte ed ecologia. Il libro è il risultato di un manifesto che abbiamo redatto nell’arco di un anno e mezzo, durante una serie di assemblee tenute all’interno di due Climate Camp a Venezia, con la conclusione al World Congress For Climate Justice di Milano. Grazie ai contributi di attivisti provenienti da quasi tutto il mondo, il libro è un invito a posizionarsi, dal punto di vista del mondo dell’arte, nella lotta per la giustizia climatica e nasce dall’intreccio tra arte e movimenti.
A Gathering into a Maelstrom è un progetto congiunto tra il Sale e l’Institute for Radical Imagination (IRI)11. Da diversi mesi abbiamo avviato un dialogo tra gli artisti di queste due realtà e il Comitato No Grandi Navi12. Ci siamo impegnati a costruire props, ovvero artefatti, che porteremo il 20 aprile in un corteo acqueo, una manifestazione del Comitato. Il contesto della produzione è quindi un intreccio molto diretto tra l’arte e l’attivismo. Non si tratta solo di realizzare una mostra o un libro, ma di far vivere la nostra attività curatoriale anche all’interno dei percorsi dei movimenti e, in questo modo, aprirla, metterla in discussione, espanderla. Non si tratta di scomparire come artisti, ma di testare i confini di ciò che oggi è chiamato arte a contatto con dinamiche sociali più ampie.
YT: Quanto è importante la presenza fisica e stabile del Sale Docks per il contesto specifico in cui si trova? Qual è il vostro rapporto con il quartiere, la città e i suoi abitanti?
MB: La presenza fisica dello spazio è cruciale. Ritengo necessario rivedere completamente il paradigma della mobilità nell’ambito artistico. Dalla mia esperienza e da ciò che osservo, i lavoratori dell’arte tendono a essere coinvolti in una rete quasi immediatamente internazionale: ci si sposta da un progetto all’altro, da una residenza all’altra, da un’università all’altra, da un museo all’altro. Questo stile di vita può apparire affascinante, rendendoci sentimenti di cittadini del mondo, soprattutto se si possiede un passaporto che facilita gli spostamenti. Nonostante la precarietà, si può ancora riuscire a sopravvivere. Tuttavia, questo tipo di nomadismo non dovrebbe essere idealizzato; mentre noi ci muoviamo da una biennale all’altra, presentando le nostre opere e i nostri discorsi politici, fatichiamo a stabilire forme organizzative efficaci e a lasciare un’impronta concreta. Nel frattempo, il capitale si radica nelle città, occupando vasti spazi, modificando il tessuto urbano e il mercato immobiliare, e promuovendo una concezione monolitica dell’arte. Per me, questo nomadismo rappresenta un meccanismo di controllo sulla critica artistica perché ostacola la costruzione di solidarietà durature e di un impatto locale concreto.
A Venezia, per esempio, solo una minima frazione di neolaureati riesce a sviluppare un proprio progetto imprenditoriale, curatoriale o artistico; la maggior parte viene espulsa dalla città, catapultata in un sistema che privilegia le élite globali, le biennali e le agenzie che affittano spazi per eventi. Occorre allontanarsi da questo nomadismo neoliberale per abbracciare quello che definisco una permanenza radicale. Dobbiamo creare spazi alternativi fisici, rivendicare luoghi, assicurare che l’arte non funzioni solo come uno strumento che estende la proprietà privata nello spazio urbano, ma che restituisca questi spazi all’uso collettivo, facendo in modo che siano frequentati non da clienti o consumatori, ma da cittadini critici.
YT: Stiamo parlando di luoghi del comune nel senso definito da Toni Negri? Credo, sia fondamentale sottolineare anche l’aspetto temporale – l’importanza della quotidianità e della continuità progettuale che non segue il ritmo “da evento a evento”.
MB: Precisamente, ci riferiamo a spazi che ospitino una varietà di partecipanti e voci. Per quanto riguarda il Sale e il suo legame con il contesto locale, la nostra priorità non è tanto attrarre turisti e visitatori per le mostre, quanto rendere lo spazio disponibile per i movimenti sociali della città: dalle compagnie teatrali in cerca di luoghi per le prove, ai collettivi femministi, fino al Comitato No Grandi Navi che necessita di uno spazio per riunirsi. A Venezia, sembra che l’obiettivo prevalente sia attrarre turisti. Consideriamo la Biennale, che non propone neppure un’entrata gratuita per i residenti. Nell’ultima edizione dell’Arte, nonostante un’affluenza record di ottocento mila visitatori, non sono stati offerti biglietti gratuiti ai 49 mila residenti dell’isola, il che è paradossale. Quindi, lontano dall’essere spazi dei commons, questi luoghi sembrano piuttosto recinti privati – enclosures.
Al contrario, la permanenza radicale che noi auspichiamo si traduce in una riappropriazione comune degli spazi, nell’apertura verso progettualità artistiche accessibili anche a chi non è professionalmente artista, nel favorire la creatività collettiva e nel sostenere la mobilità di coloro che di solito ne sono esclusi.
YT: In che modo la permanenza radicale si riflette nei vostri progetti artistici? Quali sono le sfide principali e gli obiettivi che vi ponete?
MB: Nel Sale, adottiamo talvolta la strategia di operare in concomitanza con la Biennale per cercare di hackerarla, ovvero di interrompere la sua narrazione lineare. Un esempio è il nostro recente progetto Biannalocene. L’anno scorso, il padiglione della Germania alla Biennale di Architettura, curato dal team della rivista Arch+13, ci ha invitati a presentare una proposta curatoriale per il tema Open for Maintenance, che si proponeva di mettere in luce il “lato B” dell’architettura, ovvero tutti quegli aspetti e quei lavori invisibili che consentono il funzionamento di un evento.
In collaborazione con l’Institute for Radical Imagination, abbiamo realizzato un’indagine performativa seguendo l’approccio della co-ricerca post-operaista, coinvolgendo una dozzina di lavoratori dell’arte, dal gestore neoliberale di fondi immobiliari alla pulitrice migrante moldava, esplorando la variegata precarietà nel settore culturale. Le dodici interviste sulle condizioni di lavoro sono state trasformate in una drammaturgia messa in scena nel quartiere popolare Le Casette a maggio 2023. Alcuni degli intervistati hanno partecipato come performer, altri sono stati sostituiti da attori a causa di timori di ritorsioni.
La forte partecipazione della comunità ci ha spinto a proseguire la discussione sulle condizioni di lavoro e, come risultato, abbiamo avviato un’assemblea mensile al Sale dedicata alla creazione di una Carta Metropolitana del lavoro culturale con 24 punti che affrontano questioni che vanno dai contratti e salari minimi alla sicurezza sul lavoro e alla giustizia di genere. Abbiamo presentato questa carta con un sit-in di fronte alla Biennale, e ora la stiamo proponendo alle varie istituzioni culturali della città. Per esempio, abbiamo già avuto un incontro con Palazzo Grassi e stiamo stabilendo una collaborazione con loro. Il nostro obiettivo è capire quali istituzioni sono aperte al dialogo sui diritti dei lavoratori e quali no. In questo modo, anziché semplicemente contribuire alla Biennale con contenuti critici, abbiamo utilizzato l’occasione per innescare un processo di auto-organizzazione e alteristituzionalità che ha preso il via con la performance Biannalocene. La nostra prospettiva ora è di mobilitazione culturale, di lotta e di permanenza radicale.
- https://www.saledocks.org/ ↩︎
- Marco Baravalle, L’autunno caldo del curatore. Arte, neoliberismo, pandemia (Venezia: Marsilio Editori, 2021). ↩︎
- Andreas Malm, White Skin, Black Fuel: On the Danger of Fossil Fascism (London, New York: Verso Books, 2021). ↩︎
- Françoise Vergès, Programme de désordre absolu: Décoloniser le musée (Paris: La Fabrique Editions, 2023). ↩︎
- https://www.internationaleonline.org/ ↩︎
- https://www.museoreinasofia.es/museo-red/museo-situado ↩︎
- https://redcsur.net/ ↩︎
- https://www.mosireen.com/ ↩︎
- https://assemblestudio.co.uk/ ↩︎
- https://www.saledocks.net/gitm ↩︎
- https://instituteofradicalimagination.org/ ↩︎
- No Grandi Navi http://www.nograndinavi.it/ ↩︎
- https://archplus.net/en/ ↩︎
Newsletter numero dieci_ aprile 2024