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Nuotando nell’aria – Marlene Kuntz

Pelle
È la tua proprio quella che mi manca
In certi momenti e in questo momento
È la tua pelle ciò che sento, nuotando nell’aria

Dovesiamo io e te, se non possiamo toccarci? Dove siamo se non possiamo essere corpi? Siamo nell’aria, eterei, effimeri – secondo qualcuno – e nuotiamo perché non possiamo volare. Non posiamo farlo perché la scelta di essere sospesi in aria non è stata nostra. È li che siamo stati stati sparati, è li che siamo stati estradati. Fuori da ogni strada verticale che indirizza i piedi su un percorso. Siamo lì nell’aria ma nuotiamo perché la nostra condizione è quella della sorella migrante che sbraccia nel mare. Di notte. È un nuoto, a volte, leggero perché non abbiamo l’obbligo di toccare con i piedi e quindi non sentiamo la paura della mancanza del terreno, del fondo, del fondale. Siamo con la sorella in mare ma non possiamo essere la sorella. Siamo fondale. Siamo fondale che emerge. In questo nostro nuotare iper uranico ci manca la pelle, da vestire, da toccare da indagare da annusare.

Odori dell’amore nella mente dolente, tremante, ardente
Il cuore domanda cos’è che manca
Perché si sente male, molto male
Amando, amando, amandoti ancora

La nostalgia è una questione di odori. Me lo ha insegnato il mio professore di sceneggiatura in un cinema indipendente quando la strada accademica non era neanche un punto orizzontabile. Senza i nostri odori non ci riconosciamo e senza riconoscimento non abbiamo riconoscenza e senza riconoscenza diventiamo nostalgici. Nostalgia, e tristezza, bianca, come rumore di sottofondo che non ci fa dormire. Nostalgia nella misura in cui i due Paoli della mia vita, Gilroy e Ricoeur, dicono che (ci) manca qualcosa di noi, qualcosa di quello che eravamo e che non siamo più perché manchi tu. Non abbiamo superato il lutto perché non sei mai morta, l’accademia professionalizzante ti rende solo mancante, e in questa impossibilità di sepoltura c’è la nostra mancanza di comprensione e superamento. Viviamo un circolare presente egotico nostalgico, in cui vorremo tornare ad essere o tornare all’essere.

È certo un brivido averti qui con me
In volo libero sugli anni andati ormai
E non è facile, dovresti credermi
Sentirti qui con me perché tu non ci sei
Mi piacerebbe sai, sentirti piangere
Anche una lacrima, per pochi attimi
Mi piacerebbe sai

Non essendo, viviamo una condizione zombizzata di eterna non-morte e la nostalgia diventa allora assenza delle tue lacrime perché anche tu vorresti un corpo su cui piangere. Provi il mio stesso sentimento. Vorresti una salma, vorresti una cremazione, un’urna. Vorresti, vorrei, vorremo, un ultimo bacio, seppur, freddo. Solo così potremmo andare avanti. E invece, nuotiamo, in un elemento estraneo al nostro gesto. Paul, Ricoeur, scriveva che il lavoro dello storico – a venire – è il lavoro sul lutto. Paul, Gilroy, si chiedeva come l’assunzione delle storie delle sofferenze del ventesimo secolo potesse “fornire risorse per una pacifica accoglienza dell’alterità, ponendola, in rapporto a una comunanza fondamentale”. Ci manca la morte che costantemente respingiamo. Ci manca la morte per la ritualità della sua liberazione nel riconoscimento della partenza e nell’accettazione della resistenza, intesa come ciò in cui si resta. Salutiamo da quassù le nostre compagne e i nostri compagni non morti che anelano ad un riconoscimento necrologico.