Pratiche alternative digitali
Davide Da Pieve
Oggi possiamo dire che nel mondo virtuale assistiamo alla traduzione di temi e pratiche che solitamente esperiamo nella realtà. Il ruolo, la funzione e la ragion d’essere delle esposizioni d’arte non cambia nella sua traduzione digitale, come non cambia nemmeno il ruolo la funzione e la ragion d’essere degli spazi alternativi digitali rispetto a quelli reali.
A partire da ciò possiamo quindi mettere in relazione le esposizioni digitali con delle definizioni di esposizioni elaborate nel mondo reale per mostrare come le esposizioni d’arte digitale sviluppate da alcuni luoghi alternativi non facciano altro che esplorare aspetti tecnici senza mai giungere realmente ad aggiornare le pratiche.
Numerosi artisti dalla fine degli anni ’90, assolutamente al di fuori di circuiti istituzionali e tantomeno legittimati, si avvicinano al mondo digitale e inevitabilmente nasce la necessità di presentare le loro creazioni e di esporle. In che modo viene fatto? Qual è l’uso che viene fatto di tali creazioni digitali?
Il testo che segue è la trascrizione di un intervento fatto all’Institut national d’histoire de l’art di Parigi il 27 marzo 2023 ed è il risultato dell’unione di due studi, il primo pubblicato in italiano in relazione agli spazi espositivi digitali, il secondo pubblicato solo in francese e dedicato al rapporto tra esposizioni e social network. Onde evitare di regalare contenuti sui quali poi le piattaforme dedicate alle ricerche accademiche speculano, si è scelto di pubblicare qui e rendere accessibile l’insieme, nonché l’esito, di differenti ricerche.
Second Life e la prima apertura
Nel corso degli anni ’90, gli artisti della net art, vestono spesso i panni degli amministratori di siti internet e intendono questi ultimi come opere d’arte. In modo superficiale si potrebbe concludere che, in questo caso, sia internet stesso il luogo dell’esposizione. Ma ciò non ci basta perché uno spazio espositivo è in qualche modo un contenitore dalle precise caratteristiche che solo nel corso del primo decennio del nuovo millennio comincerà a essere sperimentato in quanto tale.
Nel giro di pochi anni le tecnologie digitali saranno sempre più raffinate, sempre più facili da utilizzare e la comunità di internet crescerà inesorabilmente percependo come sempre più concreta l’utopia di poter vivere una vita potenziata e interconnessa nel mondo virtuale.
Tale processo si può osservare attraverso Second Life, piattaforma e videogioco nella quale gli utenti possono fare ciò che vogliono, nel rispetto di ciò che il software consente di fare e nel rispetto delle condizioni d’uso, le quali sono accettate dall’utente nel momento in cui si iscrive.
Parleremo più avanti nello specifico di piattaforme, per ora ci basta forse sapere che la parasocietà di Second Life, imitando il mondo reale in tutto e per tutto, non ha tardato a imitare il funzionamento della realtà capitalista.
Non ci stupisce quindi che nel 2007, quattro anni dopo il lancio della piattaforma avvenuta nel 2003, sia stata aperta la Crossworlds Gallery, prima galleria digitale aperta all’interno di Second Life con scopi prettamente commerciali. Sempre nello stesso anno tre artisti sono stati finanziati 20.000 dollari per una residenza da svolgere nella piattaforma Second Life e, a cascata, si contano sempre più progetti. Di conseguenza numerosi artisti cominciano a partecipare a un nuovo mercato in ascesa che ovviamente avrà vita breve come tutte le bolle speculative.
Perché gli spazi espositivi in Second Life hanno immediatamente successo?
Innanzitutto perché sono una novità. Ma se vogliamo comprendere nello specifico questo aspetto dobbiamo capire come funziona questa tecnologia, sia da un punto di vista interattivo, sia dal punto di vista della visualizzazione.
Cominciamo dal tipo di visualizzazione consentita, la quale in questo periodo è ancora relegata all’interno dello schermo. Lo schermo ospita al suo interno lo spazio della finzione e, esattamente come per un dipinto, la cornice separa lo spazio della finzione dalla realtà. La realtà virtuale invece porterà lo spettatore dentro la finzione con tutto il corpo. Come ha ben spiegato Oliver Grau nel 2003 con la realtà virtuale è l’”ambiente a farsi immagine” (link, p. 343) e come hanno precisato Andrea Pinotti e Antonio Somaini in Cultura Visuale, pubblicato nel 2016, l’utente “non può osservare al di fuori del campo iconico”, al di fuori dell’immagine.
A loro volta, sia lo schermo, sia il VR, consentono diverse modalità di interazione. Per comodità ne prenderemo in considerazione solo due, perché sono le uniche che verranno adottate dagli spazi espositivi digitali, ovvero: a 360° oppure in 3D.
Con l’interazione a 360° il punto di vista dell’osservatore corrisponde al punto di vista della foto o video camera che ha ripreso l’immagine in cui si trova l’avatar (se fruiamo da schermo) oppure in cui si trova l’utente (se indossa caschetto VR); la testa è il perno attorno a cui si sviluppa un ambiente che ci circonda a 360°, come se il supporto dell’immagine fosse una superficie sferica e il punto di vista corrispondesse al suo centro.
Invece, nell’interazione 3D l’avatar (nello schermo) o l’utente (con casco VR), possono spostarsi e muoversi liberamente all’interno dell’ambiente restituendo un’esperienza immersiva totale (per l’avatar con lo schermo e per l’utente con il VR).
In sintesi, attraverso il VR è stato chiaramente spiegato che ciò che cambia a livello interattivo sono i cosiddetti “gradi di libertà”, Degree of Freedom (DOF) (Fuchs, Virtual Reality Headset. A Theoretical and Pragmatic Approach, 2017, p. 63). Nello specifico il VR 360° è identificato come 3DOF, in quanto è possibile muovere la testa in tutte le direzioni secondo gli assi cartesiani x, y, z. Consentono invece 6DOF i visori VR 3D in quanto permettono di muovere la testa secondo i tre assi cartesiani e, nel medesimo tempo, di fare lo stesso con tutto il corpo.
Essendo Second Life costruito in 3D per una fruizione da schermo, gli avatar degli utenti possono camminare e muoversi liberamente nello spazio della finzione, volare, prendere oggetti e fare tutta una serie di azioni che consentono agli utenti di vivere l’illusione, attraverso lo schermo, di compiere una serie di azioni in prima persona.
Nonostante queste interessanti possibilità da sondare, nonostante siano già in nuce a Second Life gli aspetti interattivi su cui verranno sviluppati le esposizioni digitali forse più interessanti, i primi spazi espositivi alternativi nasceranno proponendo approcci diversi, molto più semplici, prettamente comunicativi, tanto da farci dubitare di trovarci di fronte a una vera esposizione artistica.
Approccio narrativo
Chrystal Gallery, lanciata nel 2010 (link) e Float Gallery, lanciata nel 2012 (link o link) sono tra i primi esempi di quelle esposizioni che appartengono a un approccio prettamente narrativo e comunicativo, in quanto, da un punto di vista interattivo sono luoghi particolarmente limitati.
La prima differenza tra questi due luoghi sta negli elementi che mediano l’esposizione.
Se l’apparato testuale di Chrystal ci dà, in modo tradizionale, informazioni sulla mostra, l’apparato di mediazione di Float, funziona sia come elemento esplicativo, sia come supporto per l’uso del sito web.
Il visitatore di Float accede inizialmente in una stanza di raccordo, nella quale deve interagire con un menù di opzioni per poter accedere nell’esposizione vera e propria, come se si trovasse nella lobby di un videogioco o nella hall di ingresso di un Museo. Questa mutazione è cruciale perché porta con sé altri cambiamenti rilevabili ancor prima di accedere nelle esposizioni virtuali, ovvero che il visitatore non è solo colui che osserva, ma è utente, in quanto è costretto a interagire con un dispositivo elettronico per effettuare la sua visita. Tale rinnovata condizione va a sommarsi all’ambivalenza del termine osservatore sottolineata da Jonathan Crary, nel senso di guardare qualcosa o nel senso di rispettare delle regole (Le tecniche dell’osservatore, 2013, p. 9), perché l’utente deve usare un dispositivo prima ancora di entrare nello spazio espositivo virtuale, all’interno del quale vestirà poi i panni del classico visitatore.
Entrato nella prima esposizione What we call a painting (link), l’utente si ritrova di fronte un’imitazione virtuale di uno spazio reale, nel quale sono inserite produzioni artistiche digitali.
Quindi ci chiediamo dove finisce lo spazio dell’opera?
Lo schermo, esattamente come un dipinto, è qualcosa che contiene un’immagine, contiene al suo interno lo spazio della finzione, è un oggetto delimitato da una cornice: appena guardiamo al di fuori della cornice usciamo dalla finzione e torniamo nella realtà.
Se guardiamo il dipinto Interno metafisico con la mano di David di Giorgio De Chirico (link) non esitiamo nemmeno un attimo a considerare l’intero spazio come un luogo della finzione e a intendere il dipinto della mano di David come un meta-dipinto. Forse qualcosa di molto simile accade anche nella mostra di Float perché la finzione è delimitata dallo schermo attraverso cui l’utente guarda, quindi tutte le opere all’interno diventano delle meta-opere. Di conseguenza ciò che l’utente osserva attraverso lo schermo è un semplice archivio di immagini della mostra.
Tale modo di esporre è molto vicino all’idea di esposizione come testo, come presentazione a livello comunicativo. Un approccio proposto da Jean Davallon e Bruce Ferguson, i quali parlano, con le rispettive differenze, in L’Exposition à l’oeuvre. Stratégies de communication et médiation
Symbolique e in Exhibition Rhetorics, delle esposizioni d’arte come «oggetto – un luogo o un insieme di opere che andremo a scoprire», un’«esposizione come medium desunto da tecniche o situazioni di comunicazione». In effetti qui la pratica espositiva, nonostante il gioco di scatole cinesi, non fa altro che presentarsi in senso comunicativo in quanto internet, molto banalmente, è esattamente questo: un mezzo di comunicazione.
Qualcosa di molto simile accade anche attraverso la piattaforma social Instagram, nella quale troviamo anche esempi di profili che si dichiarano spazi espositivi, come nel caso de Il Crepaccio Instagram Show.
Prima di arrivare alle esposizioni è doveroso però precisare alcuni aspetti relativi al funzionamento di Instagram. Come ha rilevato Nick Srnicek in Platform capitalism «le piattaforme sono infrastrutture digitali che consentono a due o più gruppi di interagire. Quindi si posizionano come intermediari che avvicinano utenti diversi». Prosegue il canadese che «sviluppatesi spesso a causa del bisogno interno di gestire dati, le piattaforme sono divenute un modo efficace per manipolare, estrarre, analizzare e usare le quantità di dati sempre più grandi che si stavano memorizzando». Il funzionamento di Instagram, come anche quello di Second Life, un videogioco mescolato alle logiche della piattaforma è così «incentrato sull’ottenimento e l’uso di un tipo particolare di materiale grezzo: i dati. (…) Dovremmo considerare i dati come il materiale grezzo che deve essere estratto, e le attività degli utenti come la fonte naturale di questa materia prima. Proprio come il petrolio, i dati sono un materiale che va estratto, raffinato e usato in tanti modi diversi. Più dati si posseggono, maggiori sono gli utilizzi che è possibile fare con essi».
Per far sì che la piattaforma cresca, questa deve spingere gli utenti a restare più tempo possibile all’interno di essa e utilizzare attivamente i suoi strumenti per far crescere i dati da ottenere.
L’aspetto buffo è che gli utenti non traggono alcun vantaggio dall’estrazione dei dati
(a meno che non si tratti di influencer che comunque non vengono pagati dalla piattaforma, ma da esterni). Insomma, tutti gli utenti della piattaforma sono dei volontari che lavorano per l’azienda Instagram. Ciò significa che, come ha spiegato Alfie Brown in Capitalismo e Candy Crush, riprendendo le teorie di Mario Tronti, nelle piattaforme online «il data point che collega due persone, generato da ogni clic sui social media, trasforma un’interazione sociale – e il guizzo di piacere ad essa associata – in una relazione di produzione in tempo reale».
Nonostante tutto ciò il mondo dell’arte utilizza assiduamente questa piattaforma e, forse, senza porsi troppe domande, alcuni utenti e curatori, prospettano un futuro davvero triste se immaginano questi come “kunshalle del futuro”, come indicato nel profilo de Il Crepaccio.
In seguito alla chiusura del suo spazio milanese Il Crepaccio, la fondatrice e curatrice del progetto, Carolin Corbetta, ha continuato a commissionare ad artisti la realizzazione di contenuti da pubblicare in Instagram per proseguire attraverso la piattaforma online la sua attività espositiva. Da questo momento in poi, i contenuti sono stati pubblicati secondo una veste grafica che segnala la presenza di creazioni realizzate da artisti diversi.
Come si legge nel sito web relativo al progetto «ogni settimana, dal lunedì al venerdì, sull’account Instagram del Crepaccio si sviluppa un inedito solo show fatto di cinque contributi commissionati ad un artista». Ciò significa che le produzioni degli artisti vengono lanciate quotidianamente e gli utenti, in pratica, possono vedere nel proprio feed un’immagine al giorno mescolata con i contenuti pubblicati di altri profili.
Paradossalmente, l’insieme delle opere che solitamente caratterizza un’esposizione è riscontrabile nel profilo solo quando l’esposizione è terminata. Inoltre, se andiamo più in profondità, l’apparato di mediazione che solitamente accompagna le esposizioni è piuttosto ridotto: troviamo solo il titolo, in alcuni casi delle descrizioni di opere, ma, per esempio, non sono mai pubblicati testi d’accompagnamento all’esposizione.
Molto probabilmente un profilo Instagram non può fare altro che funzionare per ciò che è stato programmato, ovvero come mezzo di comunicazione che media tra un contenuto e un ricevente, capace di restituire solo a posteriori un «insieme di opere».
Senza soffermarci sulla possibilità o meno di intendere un contenuto Instagram come opera, sappiamo dal sito web de Il Crepaccio che i contenuti sono stati commissionati e non sembrano essere pubblicati con l’intenzione di essere vendute. E se, facciamo l’ipotesi, un curatore volesse aprire un profilo inteso come spazio espositivo artistico, come potrebbe vendere i contenuti che espone se questi ultimi sono di proprietà di Instagram? Molto probabilmente, la soluzione più semplice sarebbe quella di vendere il medesimo contenuto su altro supporto. Ciò sarebbe un’ulteriore prova del fatto che le immagini pubblicate da un profilo Instagram, al di là se queste siano o meno opere, non possono far altro che essere intese come immagini di comunicazione volte a pubblicizzare qualcos’altro o qualcun’altro.
A questo punto dobbiamo mettere in evidenza che tale approccio comunicativo alla pratica espositiva non è esclusivamente relazionabile al modo di visualizzare (e quindi allo schermo), piuttosto è qualcosa che si relazioni al tipo di interazione che le opere hanno con il pubblico.
Ciò significa che anche attraverso dispositivi immersivi, con caratteristiche di visualizzazione molto diverse dallo schermo, è possibile individuare approcci comunicativi.
Per esempio, sempre nel 2017, se torniamo a osservare un’esposizione di Float visualizzeremo qualcosa di apparentemente molto diverso che, in realtà, è mostrato al pubblico secondo le stesse modalità di approccio di quanto visto finora.
Una volta entrati nell’esposizione di Float gallery, Ultralight beam del 2017 (link), si passa, infatti, dagli spazi di una comune abitazione alla stanza rococò di un castello, fino all’ambiente minimale di un Museo, nelle quali si snodano in modo surreale dei tubi colorati che riecheggiano lo storico screensaver di Windows, come se un noto elemento del mondo virtuale facesse parte del mondo reale, mandando in crisi una chiara distinzione tra spazio simulato e reale.
Ma questo cortocircuito reale-virtuale, come abbiamo già visto per l’esposizione del 2012, si avvale del potere certificante della fotografia per parlare di reale, ma non ha nulla a che fare con il reale. Che si tratti di un’immagine tradizionale o di un’immagine visualizzabile a 360°, la profondità è data dall’illusione prospettica e l’utente non può muoversi in profondità. Ciò significa che, ancora una volta, non c’è separazione tra l’opera e ambiente di finzione, entrambi abitano la stessa superficie dalla quale l’utente è escluso, nella quale l’utente non può accedere. L’utente sta al centro, l’immagine gli sta intorno, ma sono separati. Dunque anche in questo caso, nonostante l’utente si trovi al centro dell’immagine, molto probabilmente, egli sta comunque osservando l’immagine di un’esposizione.
Per varie ragioni come per esempio la facilità di realizzazione, la velocità di download e upload, come anche la riduzione e la semplificazione del fare esperienza di un’opera rendono questo approccio comunicativo il più diffuso nel mondo digitale. Restituire l’ambiguità di un’opera è certamente molto più complesso, per cui tale approccio consente molto probabilmente di guidare l’utente verso un apparato di finzione, cercando di farlo passare per qualcosa di neutro, anche utilizzando un ambiente tutt’altro che sterile. Al contrario, questo approccio comunicativo, è un elemento di finzione che partecipa e concorre inevitabilmente alla creazione di significato di un’opera. Oppure, sarebbe meglio dire che partecipa alla semplificazione della percezione di un’opera.
Esposizioni 3D e approccio narrativo-interattivo
Al contrario, restituisce un’esperienza molto più completa una visita all’interno di Second Live perché, il livello di interazione è talmente reale che, come abbiamo già accennato precedentemente, gli utenti possono più facilmente mimare la realtà e quindi riproporre esposizioni in senso tradizionale, ovvero di immagini o video digitali esposti su pareti bianche, ma soprattutto la possibilità di camminare intorno a una scultura, per esempio.
L’entusiasmo di tale fedeltà nella riproduzione viene messo in discussione pochi anni dopo dall’artista Alfredo Salazar-Caro, il quale dichiara nel 2015: «devo ammettere che mi preoccupo abbastanza quando vedo una galleria virtuale che emula un cubo bianco e poi ‘si blocca’ a una JPEG ‘a muro’. Quando ho concepito l’architettura di DiMoDA, ho voluto creare una struttura che potesse ancorare il visitatore a una realtà più familiare pur rimanendo al limite del surreale» (Bors, 2015, intervista pubblicata in “Anti-Utopias”).
Possiamo quindi presumere che, come in una perfetta imitazione del mondo reale, pochi anni dopo, siano stati sviluppati anche approcci e visioni alternative nei confronti di ciò che stava accadendo in Second Life e in altri siti web o piattaforme.
È infatti grazie alla pubblicazione di DiMoDa 1.0 nel 2013 (link), software e al contempo esposizione prodotta e pubblicata dal Digital Museum of Digital Art, “istituzione virtuale pionieristica” fondata dai due artisti Alfredo Salazar-Caro e William Robertson, che viene ulteriormente indagato e sviluppato un approccio espositivo narrativo-interattivo.
Il progetto, fin dal suo primo episodio è concepito in 3D, già pronto alla imminente migrazione da una visualizzazione da schermo verso una visualizzazione immersiva in VR. Infatti solo pochi mesi dopo escono le prime versioni di prova di visori VR che cambieranno le sorti di questa tecnologia che ha momenti di ribalta a singhiozzo almeno dagli anni settanta. Nel 2015 Oracle trasforma il visore VR 3D in oggetto di massa e, in parallelo, le sperimentazioni di DiMoDa cominciano già a frequentare le prime gallerie commerciali.
DiMoDa, a oggi, ha pubblicato 3 software (forse un quarto è in uscita) ciascuno scaricabile solo dal sito dei due artisti e completamente slegati da qualsiasi altra piattaforma.
Ai creatori di DiMoDa 1.0, disponibile già nel 2015 per visualizzazione da schermo e in VR, è già chiaro il potenziale della visita immersiva, nella quale l’utente non può osservare al di fuori dello spazio della finzione.
Se esporre una jpg a muro restituisce la possibilità di distinguere una meta-opera calata in uno spazio di finzione, in DiMoDa è molto più complesso riuscire a capire dove finisca lo spazio dell’opera e quello della scenografia e dell’architettura.
In realtà però non ci troviamo di fronte a nulla di così originale, ci troviamo semplicemente all’interno di ciò che già da decenni nel mondo dell’arte viene definita “installazione ambientale”.
Per esempio potremmo porci lo stesso problema nelle opere di Gregor Schnider dove finisce l’opera e inizia l’ambiente, e viceversa?
Il fatto però di non poter rivolgere gli occhi al di fuori della finzione, il fatto di non poter osservare al di fuori dello schermo, rende l’esperienza immersiva e quindi più vicina all’azione secondo un’idea di esposizione che Reesa Greenberg ha definito «azione o evento specifico (in gran parte dipendente dalle interazioni tra un certo numero di attori), un modo di presentare le cose con una certa autonomia (o autoriflessività)» (link).
Dal 2019 DiMoDa pubblicherà progetti disponibili esclusivamente per la visualizzazione immersiva in VR 3D, cercando di sfruttare sempre di più la possibilità di mettere in relazione lo spettatore-utente con l’ambiente espositivo e le opere sollecitando non solo lo sguardo, ma anche udito e tatto. Per esempio, il suono ci permette di capire se qualcosa sta accadendo al di fuori dal nostro campo visivo, magari alle nostre spalle. E anche le mani giocano un ruolo fondamentale: sia perché è possibile interagire e utilizzare oggetti sia perché muovere gli arti nello spazio restituisce un maggior grado di illusione e immersione.
Nelle esposizioni digitali 3D è quindi il tipo di narrazione, coniugata con il tipo di interazioni a caratterizzare l’esperienza, esattamente come aveva rilevato Juul per i videogiochi nel 2005 in Half-realVideo Games between Real Rules and Fictional Worlds.
L’aspetto interessante (quanto forviante) degli spazi espositivi in VR, è che questi possono essere percepiti come luoghi in cui tutto è possibile perché il creatore può tranquillamente creare un software dove le leggi della fisica sono alterate rispetto alla nostra realtà. Purtroppo, però, sia gli artisti sia i creatori di spazi espositivi devono sottostare alle possibilità del software, come del resto i visitatori devono sottostare ai gradi di libertà e alle possibilità di interazione messi loro a disposizione dai creatori. Allo stesso modo di Musei e spazi espositivi in generale, anche gli spazi digitali si comportano come dei dispositivi disciplinari, nei quali è il creatore a determinare le regole.
Sono comunque molte le differenze che, al di là di ciò che stabilisce il creatore, si possono riscontrare. Per esempio non si possono commettere atti di vandalismo, l’utente non può rompere nulla e nemmeno un hacker può corrompere tutte le copie contemporaneamente.
Altra particolarità messa in campo dalle esposizioni digitali 3D (ed elemento interessante da rapportare alle esposizioni reali) è che, come nei videogiochi, l’utente deve essere soddisfatto dall’esperienza sia a livello narrativo, sia interattivo: la buona riuscita dipende non solo da ciò che è comunicato e dalla narrazione, non solo da criteri estetici, ma anche da cosa è possibile fare nell’ambiente. Come scrive Alfie Bown gli utenti dei videogiochi «sono soggetti il cui godimento si definisce in base alle regole» (2019, p. 99), introducendo un aspetto che in ambito espositivo è forse riscontrabile solo negli Artist Run Space o in luoghi in cui non vigono le classiche norme istituzionali, ma in cui i gestori decidono cosa è possibile fare al loro interno, spingendosi anche oltre i limiti della legalità. Ed effettivamente, nonostante l’impossibilità di vivere indipendentemente dal mondo dell’arte, credo che il ruolo degli alternativi sopravviva fino ai nostri giorni e si differenzi da quello delle istituzioni proprio perché il pubblico ha molte più libertà al suo interno. Ciò finisce per incidere anche sulla percezione, su diverse possibilità di mediazione e il giudizio sull’esposizione. Per esempio, se vedo una mostra di un artista in galleria e in un artist run space, magari preferisco quest’ultima perché lì posso fumare indisturbato e magari dormire lì quella notte gratuitamente, adattandomi magari a limitate comodità, ma stringendo un legame diverso sia con l’artista, sia con i fondatori e curatori del posto che, nell’insieme, mi restituiscono un’esperienza ben diversa da quella che può darmi una guida turistica in un museo.
In seguito alla pubblicazione di DiMoDa si moltiplicheranno i “software museali”, le istituzioni virtuali create da utenti programmatori o artisti e pensate per la diffusione in piattaforme di videogiochi oppure per la loro costruzione all’interno di mondi e piattaforme virtuali, come per esempio nel metaverso.
Interessante notare come soprattutto le istituzioni museali abbiano sempre mantenuto una certa distanza da un approccio narrativo-interattivo, piuttosto, la maggior parte di riproduzioni virtuali di Musei, restano ancorate a un approccio comunicativo.
Molto probabilmente le istituzioni si preoccupano meno di ricreare ambienti in cui è possibile muoversi attraverso interazioni troppo realistiche, forse perché non hanno l’urgenza di ampliare i gradi di libertà, anzi, al contrario, hanno tra i loro scopi quello di portare i visitatori all’interno delle proprie sedi reali, piuttosto che virtuali. Il fine ultimo delle gallerie è commerciale, quindi se il collezionista compra da casa l’obiettivo lo raggiunge lo stesso. Mentre invece i Musei, al contrario, devono stimolare l’utente a pensare che la visita nei suoi spazi sia insostituibile, anche perché l’utente deve tornare a essere visitatore e comprare il biglietto, mangiare al ristorante del Museo, fare acquisti nel bookshop e magari acquistare biglietto per accedere al workshop in cui, nello spazio reale del museo si fanno esperienze virtuali con un approccio narrativo-interattivo (ricostruzione di Pompei, Notre-Dame, ecc.).
Realtà aumentata
Dobbiamo considerare sempre all’interno di questo tipo di approccio, narrativo-interattivo la realtà aumentata perché qui la tecnologia non è separata dalla realtà, ma piuttosto ibridata con essa. La realtà aumentata, a differenza dello schermo e del VR, non crea separazione, ma piuttosto sovrapposizione. E pur vero che resta visualizzabile dentro lo schermo, ma all’interno di esso vediamo anche la realtà in diretta, tale e quale a quella che vediamo fuori dallo schermo.
La realtà aumentata è forse la tecnologia più interessante perché consente un alto livello interattivo in quanto, sovrapponendosi alla realtà, non ha bisogno di imitare quest’ultima e funziona quindi, non solo come estensione, ma come vero e proprio potenziamento delle possibilità.
Ovviamente, come già specificato in precedenza, ogni tecnologia non determina l’utilizzo di un unico approccio. Anche in questo caso, infatti, possiamo osservare dei tentativi di realizzare esposizioni artistiche sfruttando la realtà aumentata che restano però più vicine a un approccio comunicativo.
Per esempio, il progetto Art Layers pubblicato nel 2021 (link), nato grazie all’idea della curatrice Valentina Tanni e alla committenza della nota rivista italiana d’arte Artribune per la realizzazione di dieci filtri Instagram realizzati da altrettanti artisti. In questo caso – come anche nel caso de IlCrepaccio – gli artisti non hanno creato gratuitamente un contenuto per la piattaforma, ma un committente li ha finanziati per la creazione di un contenuto che successivamente è stato regalato a Instagram.
Detto questo dobbiamo specificare cosa sono i filtri messi a disposizione da Instagram. Questi – da non confondere con i filtri che consentono di modificare le immagini – sono delle creazioni in realtà aumentata che gli utenti possono indossare (o far indossare ai propri animali o a degli oggetti, ecc.). Solitamente questi sono utilizzati – e molto probabilmente messi a disposizione dalla piattaforma per lo stesso motivo – come strumento per dare maggiori possibilità creative e d’intervento su una fotografia, un video tradizionale. I filtri «tradizionali» consentono di vestire le immagini, con i filtri in realtà aumentata sono le persone a potersi vestire.
Oltre a essere indossati questi filtri possono anche essere creati dagli utenti, i quali, in questo modo, contribuiscono ad arricchire – volontariamente e gratuitamente – la vasta gamma di possibilità messe a disposizione dalla piattaforma. Cimentarsi nella creazione di filtri in realtà aumentata è un’operazione più complessa delle altre rese possibili dalla piattaforma, infatti per fare ciò bisogna avere delle specifiche competenze tecniche ma anche l’appoggio a siti web esterni per una realizzazione ottimale. Diciamo che tutti gli utenti possono utilizzare i filtri in realtà aumentata, ma è certamente più ristretta la cerchia di persone che si cimenta nella loro realizzazione. Inoltre i filtri possono essere condivisi, ma gli utenti non possono mettere like, in quanto sono strumenti che devono incitare la creazione di contenuti: l’utente indossa il filtro, scatta l’immagine, la condivide e ottiene like da quest’ultima. In questo caso ci troviamo di fronte a uno strumento che aiuta a comunicare e a fare pubblicità, ma, in sé, ha vita ambigua nella piattaforma in quanto per Instagram è qualcosa di non finito, destinato a essere completato dall’utente.
Il progetto Art Layers potrebbe assomigliare un‘esposizione nel senso di azione, perché gli utenti possono in qualche modo interagire con i filtri, nonostante siano strettamente vincolati dai limiti della piattaforma.
Nonostante questo, si fa comunque fatica a ritenere Instagram come vero e proprio luogo espositivo perché comunque tali contenuti sono utilizzati per assolvere gli scopi comunicativi messi a disposizione dalla piattaforma Instagram. Essendo messi a disposizione da Instagram ed essendo di proprietà di Instagram non possono fare altro che assolvere uno scopo comunicativo che mette in moto le logiche della piattaforma. Il progetto, per essere percepito come esposizione, si appoggia anche ad altri strumenti esterni, dove troviamo il testo di presentazione e altri materiali di mediazione che vanno a completare. Ma proprio tali necessità rivelano quanto il lavoro degli artisti e della curatrice siano vincolati dalla piattaforma.
Se passiamo invece a un progetto espositivo in cui la realtà aumentata è messa a disposizione del pubblico attraverso una app realizzata dagli stessi organizzatori dell’esposizione vediamo come tale tecnologia possa esprimere a pieno le sue potenzialità.
Il progetto Unreal city, lanciato nel 2020 da Acute Art in collaborazione con Dazed Media (link), consiste in un’esposizione pubblica di 36 sculture digitali realizzate con la realtà aumentata, fruibili a Londra lungo il fiume Tamigi.
I committenti, da un lato hanno commissionato le opere, dall’altro la realizzazione di una app.
I visitatori non dovevano fare altro che scaricare la app da un qualsiasi dispositivo informatico dotato di videocamera e seguire il percorso indicato per visualizzare attraverso la applicazione alcuni punti specifici della città per osservare nel dispositivo l’apparizione di alcune sculture.
Questa semplice operazione mette in campo degli aspetti molto interessanti.
Da un lato siamo sempre all’interno di dinamiche legate inevitabilmente ai videogiochi, in quanto questa operazione assomiglia davvero moltissimo al gioco di successo Pokemon Go; dall’altro consente di mantenere i piedi ben ancorati nella realtà e di osservare oggetti il cui volume e la cui forma corrispondono esattamente allo spazio della finzione.
A tutti gli effetti ci ritroviamo di fronte a delle creazioni che, esattamente come una scultura esposta in un museo o all’interno di un parco pubblico vive come elemento di finzione nella realtà.
Nonostante la necessità di poter osservare queste creazioni solo attraverso una app e un dispositivo, questa tecnologia è l’unica che forse può mettere realmente in discussione il modo tradizionale di creare delle opere. Soprattutto perché con questa tecnologia è la socialità a restare inalterata e farci esperire un’esposizione come evento pubblico condiviso, al contrario di tutte le altre tecnologie di visualizzazione che, al contrario, restituiscono una fruizione para-sociale e individuale. Dobbiamo però sottolineare che, molto probabilmente, dovendo utilizzare uno smartphone anche in questo caso il visitatore è un utente che fruisce attraverso un dispositivo. L’aspetto forse più interessante consiste forse nel fatto che la realtà aumentata consiste contemporaneamente di interagire con la realtà, con altre persone, animali e cose di vario genere e, al contempo, con il mondo virtuale. In questo senso dunque tecnologia che potenzia l’esperienza, in quanto non imita ma amplia le possibilità.
Conclusione
In chiusura possiamo dire che le tecnologie digitali non sono ancora state in grado di fare un balzo tale da poter aggiornare le pratiche artistiche in quanto sono per lo più specchio della realtà.
Gli elementi tecnici che sono aggiornati destano per lo più inquietudine in quanto: Il pubblico da spettatore diventa utente, ovvero fruitore di qualcosa attraverso un dispositivo che aggiunge altre regole da osservare e che si aggiungono a tutti i paradigmi preesistenti. Meno libertà piuttosto che di più.
Di conseguenza le relazioni sociali diventano delle “relazioni di produzione”, le quali non solo alimentano movimenti economici nel mondo dell’arte, ma che possono generare profitto anche in situazioni totalmente estranee al mondo dell’arte. Infine, la grande fascinazione per la tecnica sembra far completamente passare inosservata la mancanza di un vero rinnovamento delle pratiche, restituendo una versione sempre più leggera e come esercizio di stile dell’essere alternativi.
Questi tre aspetti ci portano seriamente a mettere in dubbio l’utilità del voler continuare ad alimentare tali meccanismi perché nutrirli significa per lo più favorire lo sviluppo di una società sempre più anestetizzata, statica e che spesso si nasconde dietro la bandiera dell’alternativa e dell’indipendenza per provare a entrare in modo “pulito” e “dalla parte del giusto” all’interno di un gioco perverso di profitto e speculazione che si alimenta proprio grazie a tali novità.