Waiting Room – Fugazi – la graduatoria
I am a patient boy
I wait, I wait, I wait, I wait
My time, water down a drain
Everybody’s moving
Everybody’s moving
Everybody’s moving, moving, moving, moving
Please don’t leave me to remain
Puoi dare il nome che vuoi a questa attesa. Puoi darle il significato che preferisci, ma oggi tu ed io sappiamo che questa attesa si chiama graduatoria. Come cantano i Fugazi, tutti si muovono e noi…aspettiamo. Ancora, e sempre la stessa domanda: cosa? Nel sistema universitario i piani sono quinquennali come il patto di Varsavia dei CCCP, ma non c’è né stabilità né rifugio. Sei persa nelle mediane come i The Clash erano Lost in Supermaket. Hai tutti i titoli richiesti: monografie, articoli scientifici e articoli classe A. Hai pure conferenze e partecipazioni in gruppi di ricerca. Anche concorsi vinti e fondi erogati. Eppure. Eppure, aspetti. Seduto fuori città (Sitting outside of town). La nostra periferia, il nostro margine, il nostro tunnel arredato. Adorato. Eppure anche tu ed io, noi, cadiamo nell’auto commiserazione – frutto di anni di patologizzamento – e il nostro stomaco si chiede come sarebbe vivere in città. Vivere al centro, nella casa eredita dai genitori, vivere con i titoli conquistati dagli altri, parcheggiare nel garage costruito da chi c’era prima di noi. Poi ci ricordiamo che siamo nati e cresciuti qua, nel-lontano. Lontano dalla villa bifamiliare, dal prato pettinato. Non abbiamo neanche un mezzo nostro, quindi figurati se abbiamo bisogno di parcheggiare e usare il garage. Eppure (ricorre) tutta quell’attesa ha alimentato il gusto, ci ha fatto pregustare un rivalsa o per lo meno ci ha portato all’ostinazione di sapere cosa c’è oltre la waiting room. In quella room leggiamo giornali di cronaca rosa e nera pensando a quelli che, scopando o morendo, fanno un salto avanti più grande del nostro. Il discorso disfunzionale e il rimpianto, l’amarezza e la rabbia sembrano essere le uniche forme di comunicazione dell’attesa. Continuiamo a toccarci parti di corpo dolenti perché la nostra malattia è stata talmente imposta e psicosomatizzata, che non crediamo neanche a quel medico che ogni tanto entra nella stanza per dire che tra poco toccherà a noi. E allora, quel dolore sale, quasi che all’improvviso abbiamo paura del responso, quasi che all’improvviso qualcuno potrà dirci che stiamo bene. Dentro di noi sappiamo che non sarà mai per il meglio. Così, quella stanza diventa improvvisamente sicura, come il limbo del non sapere, il non dover/poter chiedere, il non dovere arrivare fino in fondo. Eppure (sempre e ancora) guardiamo il telefono nervosi per cercare di capire quando saremo chiamati. Come i cani, perdiamo la cognizione del tempo. Un minuto, due ore, tre giorni, quattro mesi, cinque anni. È lo stesso, anche non sommando. Anche scrivendo i numeri in lettere.
Probabilmente vogliamo entrare in quella stanza perché ci viene costantemente precluso. Eppure (percorre) mentre aspetti, scorri quella graduatoria. Prenditi il tuo tempo. Leggi i nomi delle persone che stanno entrando, ora, prima di te. Quelle che sono state chiamate così in fretta che non hanno avuto neanche il tempo di togliersi il giubbotto. Vorresti davvero condividere con loro il tuo spazio vitale. È vitale capire questo per capire che, in realtà, è tutta una concatenazione di attese non corrisposte che ci porta al desiderio di voler entrare e che ci fa leggere l’attesa come un passaggio necessario. In che sala d’attesa stiamo aspettando? Saresti felice di entrare in codice rosso direttamente al triage saltando l’anticamera del codice bianco? E allora pensaci. Pensiamoci, tu ed io, insieme noi. Il vero malato è colui che entra subito. In questa storia, non siamo noi ad essere malati. Noi abbiamo una semplice frattura composta del mignolo, non stiamo morendo. Stiamo bene. Ripetiamolo, guardandoci i mignoli. STIAMO BENE.
Ed ecco che la graduatoria e suoi sorpassi acquistano un’altra narrazione.
La nostra.
Facciamo passare i moribondi dell’accademia. Prendiamo due pezzi di legno, andiamo a casa di chi si prende cura di noi e facciamoci steccare il mignolo, magari bevendo una birra e raccontando di come siamo caduti. Abbandoniamo le sedie a rotelle sui cui ci hanno parcheggiato in una waiting room dalle tinte pastello fintamente rilassanti e calde. Metti a terra un piede alla volta e alzati con le le tue gambe. Mentre te ne vai, dai il tuo numero a qualcuno che ti sembra più bisognoso, magari qualcuno con una trave in occhio, senza però essere biblico. Vai fuori e respira. O fuma. Quelli lì dentro non entreranno prima di sera e quando usciranno staranno peggio di prima. Alcuni saranno addirittura operati e ricoverati.
Vuoi davvero questo?
Leggi la graduatoria e rallegrati di essere la prima delle escluse. Guarda con soddisfazione a questa libertà che inaspettatamente – mentre tu ed io aspettavamo altro- ti è stata regalata.
In the waiting room
I don’t want the news
I cannot use it
I don’t want the news
I won’t live by it
Leggi tra le righe tutto il disinteresse nei confronti delle notizie o delle informazioni riguardo a chi sta entrando prima di te. Ian MacKaye sta cantando per te e sta dicendo che mentre aspetta non desidera ricevere o ascoltare notizie, e ancor di più, non vuole basare la sua vita o le sue azioni su di esse. Quei nomi sono inutili. Noi no.
ERM
Neswletter numero undici_ maggio 2024